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‘1984’, la profezia di Orwell è divenuta realtà

Quella che sembrava una terribile profezia si sta lentamente avverando. O forse no. Insomma ogni volta che ci si approfondiscono i temi sollevati dal libro 1984 di George Orwell il pubblico e la critica si divide tra scettici e assertori convinti dell’inizio dell’era del “Grande Fratello”. Bisogna riconoscere che molte delle “visioni” dell’autore sono esattamente presenti nella realtà moderna. Non è certo il titolo di un programma televisivo che ci convince della “presenza” del “Big Brother”Big-Bro tra noi ma l’uso ormai sempre più decisivo e costante delle nuove tecnologie e del “linguaggio” che con esso si diffonde sempre di più divenendo “essenziale” nelle nostre esistenze. Prendiamo il fenomeno degli smartphone e dei social network: sono strumenti della più avanzata tecnologia moderna che hanno letteralmente cambiato i nostri costumi e influenzato (spesso negativamente) i nostri comportamenti sociali. Oggi diciamo “non ne possiamo fare più a meno”, sottolineando l’importanza che hanno assunto. Anche il linguaggio si è modificato. Non più “cellulari”, magari “evoluti” per far intenderne i progressi tecnologici: si usa il termine anglosassone “smartphone” (telefono intelligente). big2Lo stesso avviene in tutti gli altri ambiti nei quali la tecnologia ha superato ormai di gran lunga la letteratura non solo “fantascientifica”. 1984 si inserisce nel solco della cosiddetta “distopia”, cioè la descrizione di una società immaginaria o comunità indesiderabile o spaventosa. Il termine, contrario di utopia, è utilizzato in riferimento alla rappresentazione di una società fittizia (ambientata nel futuro) nella quale alcune tendenze sociali, politiche e tecnologiche avvertite nel presente sono portate a estremi negativi. In genere ci sono due filoni, quello “totalitarista”, dove l’autore descrive una vera e propria “dittatura” in una società futura, e quello “post apocalittico”, una società straziata e malata a seguito di un grave evento. Nel primo caso gli elementi caratterizzanti sono: – una società gerarchica, in cui le divisioni fra le classi sociali (o caste) sono rigide e insormontabili; – la propaganda del regime e i sistemi educativi costringono la popolazione al culto dello Stato e del suo governo, convincendola che il proprio stile di vita è l’unico (o il migliore) possibile; – il dissenso e l’individualità sono visti come valori negativi, in opposizione al conformismo dominante. Si assiste a una “depersonalizzazione” dell’individuo; big3– lo Stato, oppure le corporazioni hi-tech, o una congregazione religiosa, sono spesso rappresentati da un leader carismatico adorato dalla gente e oggetto di culto della personalità; – il mondo al di fuori dello Stato è visto con paura e ribrezzo; – il sistema penale comprende spesso la tortura fisica o psicologica; – agenzie governative o paramilitari (come una polizia segreta) sono impegnate nella sorveglianza continua dei cittadini. La sorveglianza può essere sostituita anche da potenti e avanzate reti tecnologiche; – il legame con il mondo naturale non appartiene più alla vita quotidiana. Tutti questi elementi narrativi hanno caratterizzato opere di rilievo tra cui Il padrone del mondo (Lord of the World, 1907) di Robert Hugh Benson, Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London, Noi (Мы, 1921) di Evgenij Ivanovič Zamjatin, Il mondo nuovo (Brave new world, 1932) di Aldous Huxley,George-Orwell e appunto 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. All’insegna del terribile motto « La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. », il Socing (il fantomatico socialismo inglese – il capitalismo-colonialismo odierno di matrice anglosassone non è forse vicino a molti aspetti della dittatura descritta da Orwell ?) rende schiavi i cittadini governati dal “Grande Fratello – Big Brother” che tutto vede e tutto sa. Non può non scorrere un brivido lungo le nostre schiene vista l’era delle “videosorveglianze”, delle web-cam, di Internet sempre più invasivo nelle nostre vite. « L’Ortodossia consiste nel non pensare — nel non aver bisogno di pensare. L’Ortodossia è inconsapevolezza. », scrive Orwell in 1984 e balza alla mente un recente spot pubblicitario di una nota compagnia telefonica dove si afferma che “Le nuove tecnologie ci stanno dando la libertà di non dover più scegliere. Non è fantastico?”: un’affermazione terribile. big3Non scegliere significa non avere coscienza critica, annullare l’Io. Altro indizio? Senza voler essere “complottisti” ad ogni costo, sono evidenti ( e inquietanti) le analogie con quanto scritto da Orwell nel 1948 (il titolo del libro infatti nasce da tale data con le ultime due cifre invertite – in verità l’autore voleva intitolarlo “L’ultimo uomo in Europa”). I due protagonisti del libro, Winston Smith e la compagna Julia sembrano trovare solo nell’amore e nella sessualità libera una via di fuga ad una società di schiavi, automi, privi di identità e libertà. 1984novel<< Una volta, pensò Winston, un uomo guardava il corpo di una ragazza, lo desiderava, e questo era tutto; ora non vi era spazio né per il puro amore né per la pura lussuria. Non esistevano emozioni allo stato puro, perché tutto si mescolava alla paura e all’odio. Il loro amplesso era stato una battaglia, l’orgasmo una vittoria. Era un colpo inferto al Partito. Era un atto politico >>, scrive l’autore nel passaggio che narra dell’incontro intimo tra i due protagonisti del libro, lui imiegato a trasformare articoli e notizie al Ministero della Verità, lei giovane attivista della Lega Giovanile Antisesso, i quali entrambi saranno scoperti, arrestati e torturati. Anche in questo caso il tema dell’amore e del sesso sempre più sviliti e “surrogati” non sono forse una caratteristica della società moderna? Dunque gli spuntibig5 di riflessione sono davvero innumerevoli. Dalla riflessione sul totalitarismo alla cosiddetta “neolingua”, ossia la trasformazione del significato delle parole. Mutare il senso di un termine nel gergo corrente per far dimenticare il significato precedente e annullare così il passato: la manipolazione dell’informazione e della conoscenza è un altro tema assolutamente centrale nel moderno dibattito socio-culturale mondiale che difficilmente si può esaurire in modo soddisfacente in poche righe. Insomma 1984 ha incredibilmente anticipato la società moderna nella sua evoluzione e nelle sue contraddizioni. Terrorismo, guerre informatiche, spionaggio, la tecnologia imperante … non sono più semplici “visioni” di un grande scrittore ma realtà. Ma forse sono solo suggestioni… ci stiamo sbagliando. Attenzione… “Lui” ci vede e ci ascolta! orwell

Verga e ‘La Roba’, tornare a raccontare ‘veramente’ la ‘realtà’ spaventa

Per comprenderlo in ogni sfumatura bisogna leggerlo. Giovanni Verga, insieme a Luigi Capuana è considerato il padre del “verismo”, corrente letteraria che nell’800 spinse la letteratura e gli intellettuali del tempo ad occuparsi (finalmente) della realtà, a descriverla non può attraverso canoni schematici e accademici ma attraverso uno stile “nuovo” che la faceva dunque “parlare”. Ispirata al positivismo e al naturalismo, la nuova corrente letteraria mira a fotografare oggettivamente la realtà sociale rappresentandone rigorosamente le classi, anche quelle più umili, in ogni aspetto anche quelli negativi e sgradevoli. Una “ricerca letteraria” che prenderà il via a Milano (vera Capitale della Cultura al tempo) e che si diffonderà subito nel resto del paese. Verga, Capuana, Grazia Deledda, Renato Fucini ecc., saranno dei grandi innovatori e porteranno alla ribalta “realtà” sino ad allora escluse dal dibattito intellettuale e anche politico. Tra gli autori che in quel tempo maggiormente hanno lasciato un segno indelebile nella cultura italiana spicca Verga. Giovanni_Verga_1L’autore de “I Malavoglia, “Storia di una capinera”, “Mastro Don Gesualdo”, “Novelle Rusticane”, ecc., nonché in vecchiaia Senatore del Regno d’Italia per volontà del Re Vittorio Emanuele III, sarà tra i maggiori autori di successo della corrente del “verismo”. L’utilizzo del “principio dell’impersonalità”, con una narrazione distaccata, rigorosamente in terza persona, e l’utilizzo di vocaboli tratti dai dialetti, in particolar modo quello siciliano, sono gli elementi salienti che caratterizzano la nuova corrente letteraria. Spicca poi l’interessa per le questioni socio-culturali. Nella produzione di Verga si torna a parlare della questione meridionale, dei costumi e delle usanze, del modo di vivere completamente diverso rispetto al Nord Italia, dunque delle differenze culturali e tutte le tematiche ad esse connesse. Verga2Tra i principali concetti sviluppati dall’autore vi è quello dell’impossibilità per un personaggio di umili origini di riuscire, per quanto esso valga, a riemergere da condizione in cui è nato. In poche parole per Verga non è possibile che un povero diventi ricco. Una visione che può sembrare pessimistica e fatalista della società ma che invece rispecchia perfettamente la società del suo tempo e che presenta innumerevoli spunti di riflessione anche per la nostra società contemporanea dove da tempo ormai, a seguito soprattutto della crisi economica, nei Tg, sui social network, nelle indagini statistiche, dagli organi d’informazione, si ascolta l’espressione “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. verga 3Ma la ricchezza è spesso ingannevole ed apparente, come ricorda lo stesso Verga nella novella “La Roba”. Il povero e umile Mazzarò ai arricchisce col suo duro lavoro, ma le sue ricchezze non lo emanciperanno. Proprio per approfondire questi temi e aspetti, riportiamo di seguito integralmente la novella “La Roba”, tratta da le “Novelle Rusticane”:

“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: – Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: – Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò. verga5Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. verga4Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: – Curviamoci, ragazzi! – Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. – Costui vuol essere rubato per forza! – diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: – Chi è minchione se ne stia a casa, – la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: – Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. – Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! – diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. – Lo vedete quel che mangio io? – rispondeva lui, – pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: – Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? – E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. verga6E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: – Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! – Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me! – ”

“Dio è morto”, come Nietzche ha cambiato la filosofia e l’Occidente

Dio è morto. Un’affermazione durissima la quale dopo essere stata pronunciata ha cambiato radicalmente la Filosofia che di fatto non è stata più la stessa. A pronunciarla non poteva che essere Friedrich Nietzche. Il filosofo del “nichilismo”, dello spirito “Dionisiaco”, del “Superuomo”, della “Volontà di Potenza”. Un uomo controverso (soprattutto per l’influenza che ebbero le sue concezioni filosofiche sul nazismo) ma allo stesso tempo “rivoluzionario” per la sua epoca. Un “folle” (si ammalò col passare degli anni afflitto dalla solitudine) che cambiò il pensiero filosofico mondiale e anticipò l’evolversi della società occidentale. Tra i concetti fondamentali del suo pensiero spicca proprio il concetto della “morte di Dio”. Un pensiero tragico e forte che apre scenari nuovi all’umanità. Mentre in Occidente nella metà dell‘800 fioriscono il darwinismo e il socialismo e la scienza prende sempre più il sopravvento sulla società, Nietzche nietzche2elabora questo suo pensiero fondamentale. Egli lo considera un evento terribile per l’umanità, un evento decisivo. “Dio è morto nelle nostre coscienze. Un modo iperbolico per intendere che la fede nel Dio cristiano è diventata qualcosa di incredibile per i suoi contemporanei” . Negare l’esistenza di Dio significa negare tutta la metafisica che ne scaturisce. Un altro mondo al di là di quello terreno, uno sdoppiamento della realtà e delle idee, alla base del quale c’è la filosofia di Platone. Non a caso Nietzche affermava che il cristianesimo non era altro che un “platonismo per il popolo”. Nel concetto metafisico ciò che è oltre il mondo terreno ha molto più valore di esso e anzi ne sono il fondamento. Nella tradizione metafisica il concetto di Dio rappresenta il mondo sovrasensibile o intelligibile dove sono presenti i tratti autentici dell’Essere. Dunque Dio è il fondamento o la causa del reale, la sua ragion d’essere. Con la “morte di Dio” si aprono scenari nuovi, l’uomo si impadronisce nuovamente di sé e si sostituisce a Dio e assume anche una consapevolezza nuova della propria esistenza. Tale concetto conduce Nietzche ad elaborare poi il concetto dell’“eterno ritorno”. La vita assume un significato immanente. Tutto ciò che facciamo nella nostra vita ritornerà e si ripeterà all’infinito allo stesso modo, in gioie e dolori (forte l’influenza di Eraclito, “è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume”). Di seguito riportiamo un celebre aforisma (la tecnica narrativa preferita dal filosofo soprattutto nella sua celebre opera “Così parlò Zarathustra”) Also_sprach_Zarathustratratto dalla “Gaia scienza”, denominato “L’uomo folle” nel quale troviamo appunto la formulazione del concetto della “morte di Dio”: << Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. […] Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – Ve lo voglio dire ! Siamo stati noi a ucciderlo: voi e io ! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potremmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra della catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? […] Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino a oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora giunto agli orecchi degli uomini” >>.nietzche3

“Se io avessi previsto tutto questo…”, l’ennesima sorpresa di Guccini

“Se io avessi previsto tutto questo…”, e infatti non lo aveva previsto affatto l’ennesimo successo delle sue canzoni. Una vera sorpresa natalizia l’ultima raccolta di Francesco Guccini chiamata appunto “Se io avessi previsto tutto questo – Gli amici, la strada, le canzoni” che si attesta alla decima posizione nella classifica mensile degli album più venduti. Una raccolta composta da due box da 4 e 10 cd (versione Deluxe e Super Delux), con inediti, registrazioni in studio, rarità e live introvabili, uscita lo scorso 27 novembre. guccini3La pubblicazione ripercorre la carriera intensa e ricca del cantautore (il “Cantautore” per eccellenza) bolognese. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando il “Professore” collaborava come cronista con la “Gazzetta di Modena” (suo primo vero lavoro) e dalla pubblicazione del primo Lp “Folk beat n. 1” (in precedenza aveva fondato/collaborato con diversi gruppi tra questi il celebre “I Gatti”) per poi divenire il “faro” dei cantautori, baluardo di un mondo, e dei suoi valori, che oggi sembra essere scomparso. guccini4Generazioni e generazioni hanno cantato e suonato i suoi “gioielli”: da “Auschwitz”, a “Dio è morto”, da “L’Avvelenata” a “Canzone per un’amica”, da “La Locomotiva” a “Incontro”, da “Piccola città” (dedicata alla sua natia Modena) a “Il Vecchio e il bambino”, da “Eskimo” a “Quello che non…”, passando per “Via Paolo Fabbri 43” (indirizzo della residenza bolognese di Guccini) fino alle recenti “Autunno”, “Don Chisciotte”, e tantissime altre. Una carriera “immensa” ricchissima anche di collaborazioni illustri: da Lucio Dalla, a Samuele Bersani, da Caterina Caselli a Claudio Baglioni, da Ligabue a Giorgio Gaber, da Francesco Guccini a Claudio Lolli, da Maurizio Vandelli dell’Equipe ’84 a Augusto Daolio. Proprio i Nomadi sono stati tra i principali artefici della diffusione del repertorio e del successo di Guccini. guccini2Storico infatti l’album “Album Concerto” registrato dal vivo e cantato a due voci proprio con Daolio. Un’opera “monumentale” quella di Guccini che vanta anche esperienze in altri campi quali cinema e teatro. Ma è soprattutto la “scrittura” che non abbandona mai Francesco. Se da tempo ha messo la chitarra nella custodia, il modenese dalla inconfondibile “r” moscia, idolo da sempre della sinistra (lui che si professava anarchico pur moderandosi negli ultimi tempi) continua la sua produzione letteraria. guccini5Esistenzialismo, metafisica, linguaggio colto e popolare sono le caratteristiche principali della sua poetica e che parla al cuore e alla mente delle persone. Lo scorso 3 novembre è uscita infatti la raccolta di racconti montanari, “Un matrimonio, un funerale, per non dire del gatto” , con in cantiere già il prossimo giallo, l’ottavo con Loriano Macchiavelli, il protagonista, tra gli elfi, “gli hippy venuti a vivere tra noi sulle montagne negli anni ’70”. guccini6Protagoniste sempre le montagne, i suoi adorati Appennini. Dunque “Se io avessi previsto tutto questo…” non solo può essere un gradito regalo da fare in queste festività ma rappresenta il meglio dagli studio album, con inediti riscoperti, tante collaborazioni e rarità, live memorabili introvabili. E inoltre contiene un book con foto e introduzioni ai brani scritti dallo stesso artista. guccini7Forse non lo può (possiamo) prevedere, ma certamente Guccini sarà cantato e suonato ancora a lungo anche dalle generazioni future.

“Contesti”, pronto il programma del Festival dei Libri a Carinola

Dopo l’attesa delle scorse settimane, finalmente è stato reso noto il programma della kermesse culturale “Contesti – Il Festival dei Libri” che si terrà a Carinola il 18 e 19 dicembre. L’evento promosso dall’associazione “Amici della Biblioteca di Carinola” è giunto alla sua seconda edizione dopo il grande successo dello scorso anno. Lo spirito dell’iniziativa è quello di “promuovere la lettura, creare un ponte agevolato tra autore, testo e lettore”, affermano i ragazzi dell’AABC. carinola“CONTESTI è l’incontro della letteratura con le altre arti che toccandosi, si influenzano a vicenda. Il festival nasce da un’ idea dell’associazione AABC (‘’Amici della Biblioteca di Carinola’’) Biblioteca che da circa tre anni gestisce, in forma di volontariato, la Biblioteca Comunale di Carinola e si impegna nella realizzazione di eventi quali presentazioni di libri, cineforum, mostre, spettacoli teatrali e musicali – spiegano gli organizzatori tramite la loro pagina Facebook – Convinti che la cultura non sia appannaggio esclusivo dei palcoscenici delle grandi città, questo festival è il tratto di unione tra gli eventi annuali, intesi come canali che agevolano la promozione e la diffusione della cultura vissuta in tutte le sue sfaccettature, anche nei piccoli centri come Carinola. CONTESTI è legato all’arte di dire parole, di progettare, sviluppare ed infine porgere idee, attraverso vari incontri che si susseguono in diversi momenti spazio-temporali, così da permettere a tutti di godere di ogni singolo evento. Accanto agli stands delle case editrici e alle presentazioni di libri, ci saranno laboratori, esposizioni di arti illustrative, performances artistiche, teatrali e musicali.I due giorni di festival vedranno susseguirsi laboratori per varie fasce di età, che si svolgeranno in mattinata e nel primo pomeriggio. CONTESTI si svolge nel quattrocentesco Palazzo Novelli-Petrucci, preziosa testimonianza di architettura catalana in Campania, fiore all’occhiello di un paese ricco di monumenti – proseguono –; infatti, nei giorni del festival, saranno garantiti visite guidate nei siti artistici ed archeologici del luogo, a cura dell’ Archeoclub di Carinola. Palazzo Novelli fu costruito per volere di Antonello Petrucci nella seconda metà del ‘400 con l’intervento di maestranze catalane. Restaurato nel 1998, l’edificio conserva l’aspetto che acquisì nel XV secolo, mostrandosi come uno degli esempi più significativi del linguaggio architettonico catalano nella Campania settentrionale. CONTESTI significa arricchire la vita culturale di Carinola e di tutto il territorio con una iniziativa che si ripropone anche quest’ anno rappresenta un ulteriore contributo che l’Associazione degli Amici della Biblioteca ha voluto dare alla realtà locale, perché essa possa crescere e svilupparsi sia culturalmente che socialmente. ContestiCONTESTI è il festival dei libri, una finestra sul loro mondo per scoprire nuovi autori, nuovi testi ed avvicinarsi a quelli già noti. Riflettere sulle tendenze e sulle nuove strade che il mercato culturale italiano sta imboccando, per capire come riportare l’arte ad essere un punto fermo della nostra società e della nostre vite. CONTESTI è un discorso aperto che ha bisogno di te per essere vissuto, delle tue orecchie per essere ascoltato”. Il programma della manifestazione è ricco di appuntamenti assolutamente da non perdere: – Venerdì 18, ore 11:00 Fuori Catalogo incontra la band The Orange Beach, per un dialogo sul filo rosso che collega la musica ed il libro; ore 15:00 LETTERATURA DISEGNATA, apertura della mostra dedicata al fumetto. Espongono: Enzo Troiano, Giancarlo Covino, Simone Lucciola e Rocco Lombardi, Scuola italiana di Comix, Daniele Bigliardo; ore 15:30 Giancarlo Covino, illustratore e architetto, incontra il pubblico di Contesti per realizzare insieme un fumetto corale; ore 17:30 CADE LA TERRA di Carmen Pellegrino: la scrittrice e abbandonologa parla del suo ultimo lavoro con Concetta Maria Pagliuca di Legenda Letteraria. Mostra fotografica sul tema dell’abbandono a cura di Sara Capomacchia; ore 19:00 EUROPA ANNO ZERO – Il ritorno dei nazionalismi di Eva Giovannini: un dibattito politico attuale con la giornalista, autrice del libro e con la partecipazione di Antonio Pascale; ore 21:30 TRAGICO AMMORE – struggimenti, giaculatorie e smarrimenti: teatro-canzone con Canio Loguercio (voce e chitarra) e Alessandro D’Alessandro (organetto- live electronics). carinola 2A seguire dj-set. – Sabato 19, ore 11:00 RICEVERE I CLASSICI: il mito della tragedia greca sulla scena contemporanea: il drammaturgo Francesco Puccio discute sul tema della ricezione dei classici nel mondo contemporaneo; ore11:30 Visite guidate al centro storico di Carinola a cura dell’Associazione Archeoclub; ore 15:00 COSTRUIAMO UN LIBRO laboratorio per bambini a cura di Artétèca at work: i più piccoli si avvicinano alla dimensione fisica del libro realizzandone uno a mano; 15:00 I MIEI GENITORI NON HANNO FIGLI di Marco Marsullo: l’autore presenta il suo ultimo libro con la giornalista Lidia Luberto; ore 15:30 Visite guidate al centro storico di Carinola a cura dell’Associazione Archeoclub; ore 17:30 L’ODORE DELLA POLVERE DA SPARO di Attilio Coco: lo scrittore discute del suo libro con il Prof. Filippo Ianniello; ore 19:00 TERAPIA DI COPPIA PER AMANTI di Diego De Silva: reading letterario con l’autore. Introduce Antonio Pascale. A seguire Aperitivo; ore 21:00 RICOMINCIO DA MASSIMO, monologo-spettacolo di e con Antonio Pascale; ore 22:30 THE NIRO, nome d’arte di Davide Combusti, cantautore e polistrumentista romano, tra le tappe del suo tour ha scelto Contesti.

“Contesti”, a dicembre la rassegna dedicata ai libri

Si svolgerà i prossimi 18 e 19 dicembre la nuova edizione di “Contesti – Il Festival dei Libri”. La manifestazione è promossa dall’Associazione Amici della Biblioteca di Carinola e si svolgerà presso Palazzo Novelli. Una due giorni dedicata al mondo della cultura e che vedrà la partecipazione di numerosi autori emergenti e affermati provenienti da tutta Italia e non solo, i quali avranno l’opportunità di presentare le proprie opere e dibattere sullo stato dell’arte della scrittura in Italia. Un appuntamento al quale presenzieranno anche autorevoli esponenti locali e regionali del mondo della cultura e delle istituzioni. Gli organizzatori stanno lavorando in questi giorni alla stesura del programma che resta per il momento top-secret. Tra le uniche “certezze” la chiusura della manifestazione con un concerto (lo scorso anno si esibirono i Freak Opera). Per ulteriori informazioni, contattare gli organizzatori e seguire passo dopo passo l’evoluzione della manifestazione, sono consultabili le pagine Facebook “Contesti – Il Festival dei Libri” e “Biblioteca Carinola”  ed il sito internet www.contestifestival.itPalazzo Novelli

Garibaldi non fu mai a Teano – intervista a Carlo Antuono

Arriviamo quasi puntuali, io e Andrea, con 4 minuti di ritardo, entrambi interessatissimi, per ragioni simili ma presupposti diversi, all’Unità d’Italia. Il prof. è là che aspetta, in piedi, con 2 libri sotto il braccio e sta telefonando, forse preoccupato del nostro ritardo.

“La stavo chiamando perché non la vedevo arrivare”. Mi da del lei e la cosa mi fa strano visto che il prof. Antuono ha più o meno l’età di mio padre.

Ci sediamo per una chiacchierata informale, gli chiedo se posso registrarlo almeno in audio, per il video mi smonta subito, non se ne parla, “l’audio si, ma solo perché sei amico di mio figlio e mi fido”.

Inizia a raccontarci da lontano, fa riferimenti, spesso, al libro del 2011, di cui questo “Garibaldi non fu mai a Teano” è completamento. Ci mostra foto, ci racconta le fonti e la rielaborazione storiografica che ha realizzato negli ultimi 5 anni di lavoro.

Il prof. è un fiume in piena, non riusciamo a tenergli testa tanto è grande l’entusiasmo, vuole raccontarci tutto e noi, nella fase iniziale, lo facciamo parlare.

Gli faccio 2 domande, una sulle fonti che ha utilizzato, l’altra su la reazione dei suoi concittadini (Antuono è cittadino di Teano) all’uscita di quest’altro libro.

Sulle fonti la risposta è molto esauriente, ci mostra documenti, inediti, nuove teorie, ringrazia tutti quelli che hanno contribuito, tra cui il senatore Di Muccio che ha fornito la foto ORIGINALE della lapide teanese che recava la dicitura Quadrivio di Caianello, poi cambiata con la dicitura Teano, poi passa alla nota dolente.

“Mi stanno massacrando sui social network ma, per fortuna, io non sono su Facebook, preferisco impiegare in maniera differente il mio tempo.” E’ un uomo sereno, forte di quella forza che hanno solo gli uomini che sono dalla parte del giusto e della Verità.

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Mentre chiacchieriamo piacevolmente ecco chiedermi “ha una penna?” (avevamo concordato di darci del “tu” ma continuerà a darmi del “lei” per tutta l’intervista).

“Ora vi dimostro con un disegno la mistificazione di Boragine, che non era un fesso”. E così inizia a farci un disegno (che vi mostreremo in video in un prossimo articolo), dove ci spiega in maniera chiara, semplice e concisa, le immense falle della teoria del Boragine, sulla quale si basa tutta quanta la “ricostruzione” errata dell’Incontro di Teano. E noi restiamo, così, a bocca aperta a guardare la penna che sfiora il foglio, prima il disegno del quadrivio, poi il posizionamento delle truppe e poi il “perché” non poteva essere possibile che l’incontro fosse avvenuto a Teano. Una fonte inesauribile di informazioni.

“Garibaldi non fu mai a Teano” si basa principalmente sullo scardinamento preciso e possente di tutte le teorie costruite ad arte dal Boragine, teorie che, insieme alla “relazione del 1926” scardinata nel libro del 2011, facevano parte di una sorta di “complotto campanilistico” per dare ad una città (tra l’altro per la sua storia, Teano, non ne avrebbe affatto bisogno) la paternità di un evento che invece spettava ad altro Comune.

A questo punto Andrea azzarda una domanda, un po’ fuori dagli schemi, chiedendo un’opinione sulla vera storia del Risorgimento italiano e se questo incontro fosse, in realtà, avvenuto davvero.

“L’incontro è sicuramente avvenuto, la montagna di testimonianze storiche non si può ignorare. Diverso è, forse, il significato che ebbe. Il popolo non conosceva neanche Vittorio Emanuele II, non lo amava, non credeva in lui. Per molti, in queste terre, l’eroe era Garibaldi perché aveva promesso libertà e democrazia, era Repubblicano. Probabilmente in molti non si aspettavano di essere dominati da un’altra monarchia. Nel finale in questo libro, non per cavalcare il revisionismo di questo periodo, ho proprio parlato di ARMATE di OCCUPAZIONE.”

Ci lasciamo con un saluto, e un dono prezioso, un libro straordinario, pieno di spunti storici interessanti sulla nostra terra, ma “Garibaldi non fu mai a Teano” è molto di più, perché al suo interno c’è il lavoro di un uomo giusto che ha preferito scrivere e studiare la VERITA’ anziché perdersi in inutili, stucchevoli e anacronistiche guerre di campanile.

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La Signora che parlava “italiano” – recensione di Daniela Persico

Giuseppina, La signora che parlava italiano, è un racconto breve di Thomas Scalera.Thomas Scalera, come molti di voi sapranno, è il nostro editore, qui su Planet Magazine.

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Ma, per tutti noi suoi collaboratori, da quelli occasionali come me, a quelli della redazione, Thomas Scalera è anche molto di più: un confronto costante, un sorriso, una parole delicata, tante confidenze, una guida, due coccole.

Nel mio caso in particolare, è una delle persone che sento a me più affini e vicine.

Lo conosco oramai da oltre tre anni, ci siamo parlati lunghissime ore, abbiamo condiviso momenti belli e momenti difficilissimi.TH SCALERA

Reciprocamente.

Con la voce, con un click, con un grande affetto.

Perché fare tutta questa lunghissima e, forse anche un po’ stucchevole premessa, se il mio unico scopo, in questo frangente, non è certo massaggiare l’Ego del mio Th, ma parlare di una sua opera d’ingegno?

Perché voglio che sia chiaro: io adoro Thomas, ma questo non mi esenterà dall’essere obiettiva nel criticare una sua piccola e preziosa opera letteraria, sia pure all’interno di una testata web da lui ideata, creata, custodita e finanziata.

Io sono una critica, come sapete. E come se ciò non bastasse sono anche un legale. E una donna.

Insomma sono l’essere ipoteticamente più a rischio di gratuita cattiveria che si possa prefigurare.

Certo nella mia oramai lunga carriera di scribacchina web e non, ho eletto una teoria: salvo casi eccezionali e volontariamente punitivi, se si deve parlare male di un evento, di una persona, di una situazione, di un’impresa, è meglio tacere pubblicamente.

Chi è così ardimentoso da chiedermi privatamente la mia opzione, per quel che valga ed interessi, l’avrà sempre, e sarà, se necessario, perfino cinica. Ma se non parlo mediamente è perché o non conosco o non ritengo di poter parlare perché la mia opinione è decisamente contrastiva.

 

Uno dei miei maestri web, Rudy Bandiera, in tutta la sua mission su internet ed in particolare nella sua ultima opera (le 42 leggi del digital Carisma) postula da sempre questo.

Sia nella sua vita reale, sia durante i suoi corsi, sia chiaramente nella sua lunga tortuosa e iperprofittevole vita web: tutto quello che di inutilmente acrimonioso divulghiamo on line si ritorcerà prima o poi contro di noi.

Io me ne sono fatta persuasa, anche da prima e nella vita reale.

 

Per questo se non ho scadenze, obblighi o necessità per “etica professionale”, raramente nei miei fiumi di parole troverete critiche sferzanti.

Ma non perché diversamente da tutti a me non piaccia farne: mi piace tantissimo.

Il critico, del resto, è uno che sa fare poco e ama distruggere chi ha avuto il coraggio di fare, sostanzialmente per punire la propria codardia.

 

Io non voglio parlare male delle cose.

 

Ugualmente, però, parlando solo di quello che realmente mi piace e mi interessa, anche se mostro spesso un’entusiasmo febbrile, non vuol dire che sia innamorata delle mie idee (o almeno non necessariamente), vuol dire che sono proprio convinta di quello che dico.

Oggi, dopo circa dieci minuti verrete a scoprire, cari amici di Planet Magazine, che quello che voglio affermare è che “Giuseppina, la signora che parlava italiano” di Thomas Scalera, scaricabile gratuitamente a questo link (sull’interessante piattaforma di free literature sharing “20 lines”) è un piccolo denso gioiello.

Ad una storia che potrebbe da sola valere tre romanzi di medie dimensioni, si unisce una perfetta e coinvolgente padronanza della lingua italiana che Thomas Scalera regala ai suoi lettori con levità.

Uno stile colto, puntuale, attento, (emergente dalla scelta precisa dei vocaboli, l’uso profittevole della punteggiatura, perfino da una certa eleganza nel succedersi del ritmo delle frasi), si bilancia infatti con un atteggiamento dello scrittore Scalera discorsivo, colloquiale, quasi amichevole.

Quasi, si potrebbe dire, familiare.

Perché di questo, del resto poi, tratta La signora che parlava italiano: di una incredibile storia familiare, appena tratteggiata, nelle parole e nel racconto.

Nel delineare di una donna “larger than life”, come dicono gli americani, Giuseppina, appunto, che pur collocata temporalmente dal racconto in uno spazio socio-culturale-storico ben definito e determinato, è in realtà una sorta di archetipo dell’eroina materna di stampo classico: bella, sofisticata, semplice, dedita, ma pugnace, pugnace sino alla morte ed oltre la morte, per difendere quello che di più caro ha per se stessa.

Non se stessa, ma suo figlio nascituro, poi nato, poi addirittura riprodottosi, anche quando lei, Giuseppina , ci si fa intuire non esista più da anni.

E poi lì a tratteggiare con lievità altri topoi letterari che non sono esercizio di maniera, ma cuore della storia (i porci che non sono maiali e i maiali che non sono porci), le invidie omicide, la serva fedele che è sorella e riporta alla vita. E tante altre cose che un critico non può certo scrivere e che un lettore deve solo vivere.

Io credo che un racconto così, che l’app sulla quale è scaricabile, ripeto, gratuitamente, consiglia di leggere in cinque minuti, regali invece ore di riflessioni, ore di rimandi, ore di riletture.

Ore di ideali conversazioni con Giuseppina, la signora che parlava italiano e che seppure fosse mai esistita io non avrei mai potuto conoscere.

Ti ringrazio ancora una volta Th, per avermela invece regalata.

Ora è con me, insieme a Madame Bovary, ad Atreyu, al Matto, Harry Potter, alle perle di David Foster Wallace e a tutti gli altri personaggi che ho scelto nel tempo abitassero la mia mente contorta.

La signora che parlava “italiano”

“Nicolò, corri vieni qua, Nicolò”. La sua frase più ricorrente, la frase che diceva tutto, l’unico vero amore della sua vita. Era successo tutto molto in fretta, una guerra, un periodo di crisi, il trasferimento a Napoli con la famiglia. Torino è lontana adesso, per le strade dell’assolata città tanta gente, qui c’è il profumo del mare, il profumo della vita. Poi la guerra.

Nessuno ricorda come si fossero conosciuti, o forse nessuno gliel’aveva mai chiesto ma Michele era un bell’uomo, un uomo d’affari d’altri tempi, con il suo lungo cappotto e il suo Borsalino. Arriva con la sua Balilla quando la maggior parte delle persone gira ancora con il carretto. E’ un uomo tutto d’un pezzo, ha combattuto per il Re nella Grande Guerra e con poche parole conquista la bellissima giovane venuta dal nord. Lei è molto più giovane di lui, quasi 20 anni, ma la cosa non spaventa nessuno, Michele è già stato sposato, sa cosa significa il matrimonio, ha già un figlio, ma questo non lo ferma. E’ amore, quello autentico. Michele è compagno amorevole, ma è anche un po’ genitore e forse Giuseppina lo ha sposato anche per questo. La giovane è felice, lascia tutto, la famiglia, la grande città, il benessere familiare e si trasferisce in un piccolo paesino, su una strada, vicino alla stazione dove una chiesa, una taverna e un distributore di carburante sono le cose più in vista.

“La signora parla strano”, “ma addò ne vene?” furono i commenti iniziali ma poi, la solarità, la bellezza, il sorriso ebbero il sopravvento e, ben presto quella “parlata strana” diventò familiare e il fatto che la “Signora” si permettesse di fumare in pubblico, vestisse sempre alla moda, non avesse mai un capello fuori posto, passò in secondo piano. Era diventata “l’amica di tutti”. Casa sua era un viavai di giovani che giocavano, dormivano, imparavano, mangiavano, e guardavano la TV, la prima di tutto il paesello.

Sembra una favola ma non è così perché Giuseppina non aveva fatto i conti con la cattiveria pura, quella che proviene dalla famiglia, quella che venne fuori quando disse a tutti che aspettava un bambino. Michele aveva già un figlio, della stessa età della giovane moglie, come si sarebbe divisa la proprietà, chi avrebbe gestito quella IMMENSA ricchezza?

Giuseppina non percepisce il pericolo, è amata da tutti, non si aspetta colpi bassi. Tuttavia le serpi stanno crescendo in casa sua, perché l’avarizia e la brama di ricchezza seppelliscono qualsiasi legame, anche quello di sangue. E allora, per i familiari di Michele, il bimbo che porta in grembo Giuseppina non deve assolutamente nascere, si spera in un aborto naturale, visto che la donna ha già 36 anni, ma nulla, il bimbo cresce forte e sano nella pancia della mamma. Allora va ordito un complotto, un modo per far morire quel bambino, un’imboscata. Una notte, un gruppo di serpenti, con lo stesso cognome di quel bambino che avrebbero dovuto accudire, proteggere e aiutare a crescere, l’aspetta al buio, in quel cortile che doveva essere un riparo, saltandole addosso alle spalle. Pugni schiaffi ma soprattutto tanti calci nella pancia, perché quel bambino che avrebbe diviso la ricchezza doveva morire là, quella sera stessa. Tanti calci, sangue e urla, che nessuno ascoltò, o che nessuno volle ascoltare. E così questo agguato vigliacco lasciava a terra una donna esanime, in una pozza di sangue e il bambino in grave pericolo. Per sicurezza, i coraggiosi aggressori delle tenebre la prendono e la gettano, senza pietà, nella stalla dei porci, affinché quel sangue facesse da richiamo per gli animali e, essendo tanto affamati, potessero finire, finalmente, quello che vigliaccamente avevano iniziato uomini piccoli come granelli di sabbia, incapaci persino di chiudere la partita iniziata poco prima.

Tuttavia avevano fatto male i conti col coraggio e la forza di Giuseppina, una donna che non aveva esitato, pochi anni prima, a gettarsi davanti ai fucili di soldati tedeschi intenti a fucilare dei ribelli, regalando poi loro un maiale per placarne l’ira e, soprattutto, la fame. I maiali, spesso ritornano in questa storia, ma c’è un’immensa differenza tra maiali e porci.

Torniamo a noi.

Giuseppina raccoglie le forze, mentre i maiali avanzano pericolosamente, si alza in piedi, col sangue che le esce dal naso e dalla bocca, con il resto che le scorre sulle gambe e si avvicina alla porta. Nulla, è sbarrata, ed è troppo debole per poterla forzare, e allora urla, urla con tutta la forza che ha in corpo “aiuto! aiuto, per l’amor di Dio aiutatemi!” per la prima volta una voce disperata, non quella serena e pacata della “signora venuta dal Nord, che parlava ‘italiano’ ” che aveva incantato per anni gli abitanti del piccolo borgo con lo Scalo ferroviario. I maiali, gli animali nella stalla, non i porci che l’avevano ridotta in fin di vita, si avvicinano minacciosamente attirati dall’odore del sangue e dalla paura.

Le gambe tremano, la sudorazione aumenta ma, in quel momento, quando tutto sembra perduto arriva un “click” che sa di miracoloso. La barra di legno che blocca la porta si alza, si apre. “Michele, sei tu? Grazie per essere venuto, grazie!”. “No signora Giuseppì, non sono on Michele, sono Maria, ascit a for, svelta, che qua puzza e questo posto nun fa pe vuie, non fa bene al bimbo”. Era Maria, la governante, giovane donna cresciuta in casa, quasi una figlia. E’ piccola, minuta, magra, mentre Giuseppina è una donna alta oltre un metro e settanta, nonostante tutto la fa appoggiare e la porta su: “andiamo a casa, svelta e speriamo che non ce ver nisciun”.

“Mi hanno rubato pure la borsa Maria! La borsa con tutte le cambiali, con tutti i soldi che mi devono!” “Nun fa niente, signò, mo’ iamm ncopp, che qua è pericoloso, se ci vedono c’abbusc pure io”.

E così tornano a casa, due rampe di scale grigie, il robusto portoncino di legno si apre. Giuseppina redarguisce Maria: “Michele non deve sapere niente di questa storia, sono suoi familiari, stiamo già vivendo un momento difficile con l’azienda, tanto torna tra 3 giorni dalla Puglia, i lividi scompariranno, promettimelo, adesso”.

E così quel triste episodio morì quella sera stessa, senza che nessuno lo ricordasse, tranne loro due.

Da quel giorno, in quel modo, una mamma votò la propria intera esistenza ad un figlio.

Il bimbo, Nicolò, si era salvato e oggi ha figli e nipoti e una mamma che ancora lo protegge, da lassù.

Giuseppina, l’amica di tutti, la signora venuta dal nord che parlava “italiano”.

 

AL GAY VILLAGE GRANDE SUCCESSO DEL LIBRO ENERO AMARGO

La Presentazione del libro Enero Amargo (Tradotto Gennaio Amaro) di Vincenzo Mazza e Aurora Di Giuseppe Edito da Arduino Sacco – Roma tenutasi il 4 Luglio al Gay Village di Roma. Il libro nato per combattere l’omofobia , alla presenza di circa 200 persone che hanno acclamato più volte agli interventi dell’autore Vincenzo Mazza, ai vari messaggi sul mondo LGBT pronunciati dalla presidente di Dì Gay Project, Maria Laura Annibali e dalla consigliera e attivista Imma Battaglia, persone che da anni combattono per i diritti di quella parte della società ritenuta diversa. Applausi anche per l’Attore Frank Messina che ha letto e interpretato alcuni passi del romanzo e per l’intervento della psicosessuologa Dottoressa Serena Romano. Alla domanda: «In un paese come l’Italia di oggi quale messaggio la storia di Enero Amargo può offrire ai lettori?» fatta dal moderatore Karmel Attolico, Vincenzo Mazza dice: «In Enero Amargo l’identità omosessuale emerge dopo un vero e proprio processo di maturazione, troviamo nella vicenda la parola USCIRE FUORI (Coming Out) che nel tempo è diventata la parola magica per le persone LGBT di tutto il mondo e negli ultimi tre decenni questo processo è divenuto visibile a tutti e sembra avere subito una impressionante accelerazione, dal momento del venir fuori i personaggi della storia narrata incontreranno tante difficoltà perché la società è spesso diffidente nei confronti delle diversità, fino al punto di considerarle pericolose. C’è da dire che l’Italia, se pur ci troviamo nel terzo millennio, non si può definire particolarmente all’avanguardia su questo terreno, ci sono ancora troppe cose da accettare e leggi da approvare malgrado anni trascorsi dagli attivisti a battersi per l’uguaglianza. Dopo avere aperto questa mia breve parentesi, il messaggio che Enero Amargo vuole offrire alle persone oggi, se pure è una vicenda ambientata alla fine degli anni ’80, è quello di abbattere ogni pregiudizio e soprattutto l’indifferenza, provando a cogliere lo spirito di tante persone messe spesso da parte e lasciate in un angolo della società e della vita. Cerchiamo di rivolgere lo sguardo verso un futuro migliore e soprattutto affrontiamo la realtà umana uniti.» Un particolare apprezzamento per quella che è stata definita una vera e propria opera contro ogni forma di discriminazione è stato espresso all’autore dall’attrice Eva Grimaldi che ha assistito alla presentazione ed ha voluto ad ogni costo un libro autografato.

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Biografia di Vincenzo Mazza
Vincenzo Mazza nasce a Torre del Greco (NA) nel 1972. Scrittore, Fumettista e Pittore entra nel mondo dell’arte realizzando opere pittoriche con una tecnica particolare utilizzando pezzi di legno al posto della comune tela per dipingere. Fa alcune mostre in varie location e musei, tra i quali il MAV Museo Archeologico Virtuale di Ercolano – Napoli, è conosciuto in tutto il mondo. A un certo punto della vita artistica Vincenzo scopre che la sua passione va in direzione del fumetto, ma ancora di più verso la scrittura. Nel 2009 si trasferisce a Roma e in quel periodo combinando il fumetto e la scrittura pubblica il suo primo romanzo, un fantasy dal titolo “STAR OF GOD e il Sigillo tra i due Mondi” l’opera difatti oltre alla storia narrata contiene anche scene fumettistiche.