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Army of the dead, la recensione

Army of the dead è il nuovo film di zombi di Zack Snyder uscito per Netflix.
Credo che non ci sia bisogno di presentare chi sia Zack Snyder, a oggi è uno dei registi più conosciuti degli ultimi anni, famoso per i film dei supereroi DC, in modo particolare la Snyder-cut della Justice League, ma qui scrivendo una recensione su Army of the dead e non su cinema di Snyder che fra altro piace molto come regista.

Army of the Dead: recensione del film Netflix - Cinematographe.it

Questo è il secondo film di zombi di Snyder, il primo è stato l’alba dei morti viventi, remake del 2004 del film di John Romero del 1978, in pratica è il film in cui un gruppo di sopravvissuti per salvarsi va in un centro commerciale.
Diciamolo subito, non sono proprio un grande estimatore di film o serie di morti viventi, secondo me a parte i film di John Romero e quelli del nostro Lucio Fulci ci sono state davvero poche novità nel genere.
Un genere che purtroppo è oramai stratificato e fin troppo conosciuto, che non riesce più andare oltre i suoi stessi stereotipi, che sia film, o serie tv o fumetti o videogiochi, la storia di zombie resta sempre la stessa, i protagonisti armati fino ai denti sparano alla testa degli zombi, e questi muoiono definitivamente.
In pratica quando vedi una storia di zombi sai già cosa stai vedendo, sai già cosa succederà e puoi persino anticipare le singole scene, a volte le uniche differenze sono il modo in cui gli uomini uccidono gli zombi o viceversa.
C’è da domandarsi se rivedere sempre la stessa storia non sia altro che crearsi una comfort zone o la classica coperta di Linus, dove allo spettatore piace rifugiarsi, arrivando persino ad odiare qualsiasi tipo di storia alternativa; per esempio tra il pubblico c’è chi non sopporta se in una storia gli zombi questi non vanno lenti ecc. per molti gli zombi devo essere sempre gli stessi, cretini, lenti, putrefarti, affamati mai niente che vada oltre questi stilemi.

Army of the dead: Netflix dei morti viventi — Mondospettacolo

Tornado al film di Army of the dead, la storia è facile da riassumere, c’è un convoglio militare che sta attraversando lo stato del Nevada con un carico misterioso, questo ha un incidente, e si scopre che il carico altro non è che un militare che è diventato uno zombie, uno zombie molto veloce e dotato di una certa intelligenza, questo dopo aver attacco la scorta e averla infetta si dirige con loro verso la città più vicina Las Vegas. La città viene presto contaminata e il governo decide di circondarla con dei container per tenere gli zombi rinchiusi. Passano gli anni e alcuni cittadini di Las Vegas sopravvissuti viene proposto di tornare in città per rubare l’incasso di un casinò chiuso in una cassaforte. Questo comando improvvisato è comandato da Scott Ward, interpretato da Dave Bautista, l’ex lottatore di Wrestling e famoso soprattutto per il ruolo di Drax il Distruttore nei guardiani della Galassia.
Army of the dead vuole essere un film di rapina in una storia di zombi, e dopo aver raccontato la distruzione di Las Vegas nei titoli di testa, con una sequenza che ricorda opening di Watchmen, si concentra con la presentazione e il reclutamento dei personaggi protagonisti.

Interessante ambientazione nel vedere Las Vegas come una città distrutta circondata da un muro fatto di container, che può anche ricordare alla lontana l’anime attacco dei giganti; e con qualche piccolo accenno socio-politico dove il governo e l’opinione pubblica americana non sa cosa fare degli zombi o dei sopravissuti sfuggiti alla città. La tendopoli costruita sotto il muro di container sembrano molto simili ai campi profughi di troppe parti del mondo e mentre le persone in quarantena somigliano a degli immigrati ai confini che cercano di rifarsi una vita; ma questi sono argomenti solo accennati, ma dopo tutto le storie di zombi hanno da sempre avuto un sottotesto politico più o meno forte, anche se in Army of the dead gli argomenti sono trattati in modo abbastanza superficiale, perché quello che si vuole raccontare è un action movie dove si vedono zombi fatti a pezzi in tutte le maniere e diciamolo è anche giusto così.

I personaggi vengono introdotti uno per volta, ma sono veramente pochi quelli che restano impressi, tanto che diventa difficile persino ricordarne i nomi, forse ce ne sono troppi, alla fine quello meglio caratterizzato resta il protagonista Scott Ward, cioè Bautista, che ha pure un’interessante dinamica con la figlia. Bautista rende bene il personaggio e in pratica da solo tiene in piedi l’intera storia, e che prende a piene mani dagli eroi action degli anni 80, in particolar modo da Arnold Schwarzenegger nella fisicità del personaggio e dal’umanità di Bruce Wills.
Gli altri sono quasi di contorno e seguiamo in modo abbastanza separato le loro storyline mentre cercano di raggiungere il casino evitando o uccidendo zombi.
Zombi che si dividono in vari tipi tra quelli lenti e quelli più veloci, cioè gli Alpha che hanno persino una certa intelligenza e una specie gerarchia sociale, e sembra essere usciti dai film le colline hanno gli occhi e persino io sono leggenda del 2007 con Will Smith.
Il vero problema è di questo film è che davvero non riesci più di tanto a provare empatia o a simpatizzare con i protagonisti, a parte il personaggio di Bautista e pochi altri, fra altro il piano della rapina fa acqua un po’ dappertutto, e lo spettatore lo capisce ancora prima dei protagonisti a questo s’aggiunge che il film, nonostante alcune piccole novità, non riesce mai ad andare veramente oltre gli stereotipi dei film precedenti, e per tutta la visione ti sembra di vedere qualcosa di già visto in altri lungometraggi e videogiochi, tanto che si può persino giocare a indovinare il destino dei personaggi nella prima mezz’ora.

Alla fine Army of the dead si chiude con il più classico dei cliffhanger dei zombi movie; e dopo aver passato due ore e mezza a vedere questo film, in realtà non ti resta molto, più che altro perché non vuole essere molto di più di quello che è, cioè un film di zombi con alcune piccole variazioni sul tema, resta il dubbio di come sarebbe andato questo film al cinema, anche se forse la durata lo avrebbe penalizzato non poco, e forse qualche taglio in più anche in streaming, non sarebbe stata una cattiva idea.

Perché ci sono ufo e zombie robot in Army of the Dead? I segreti del film di Zack Snyder

E’ un vero peccato che Zack Snyder da grande regista e narratore, non abbia voluto rischiare più di tanto con questo zombi movie, ma forse anche non avrebbe potuto neanche volendo tentare qualcosa di nuovo, un vero peccato perché mi aspettavo qualcosa di più da lui di un compitino svolto, tenendo anche presente che andando su un servizio streaming, si sarebbe davvero potuto fare qualcosa di più coraggioso e originale, se non si rischia oggi su Netflix o su Amazon, dove si vuole rischiare?

Oggigiorno purtroppo stiamo vivendo un momento d’omologazione dei generi cinematografici (e in alcuni casi anche nello streaming), oramai lo spettatore si vede un film già sapendo cosa aspettarsi, soprattutto in certi generi, tanto che sembra davvero vedersi sempre lo stesso film. Vogliamo davvero vedere in un loop infinito storie di zombi e di supereroi per anni e anni? Alla fine non diventeremo noi stessi degli zombi a cui ci viene dato da divorare sempre il medesimo cadavere?

Ready Player One, un capolavoro postmoderno

Un film straordinario, effetti speciali e citazioni a gogo.
Fantascienza, ma non troppo…
Steven Spielberg ci ha provato, come al solito, i suoi film non sono mai banali, mai leggeri, mai quello che sembrano.

E questo non fa eccezione.

RPO è l’adattamento cinematografico del romanzo om […] Continua a leggere: https://www.planetmagazine.it/ready-player-one-un-capolavoro-postmoderno/

Frida (2002)

Frida è un film del 2002 dove si racconta, principalmente, la storia della vita di Frida Kahlo, straordinaria pittrice vissuta nella prima metà del secolo scorso. Il film ha un inizio classico, il regista ci mostra candidamente l’”inizio” di una storia e di una vita. Senza preamboli, senza troppo tergiversare, ci fa vedere l’avvenimento che segnerà per sempre la protagonista, uno spaventoso incidente.
Slow motion e questa scena dell’oro che si sparge in tutte le direzioni apre una riflessione sulla ricchezza del Messico di quel periodo prima che, forse, gli USA calassero la loro ombra nera su tutto il continente. L’incidente cambia la sua vita costringendola ad una lunga degenza a letto, ma questo “riposo forzato” fa esplodere il “talento pittorico” della giovane. E così lei inizia a dipingere, così, per gioco ma trova sostegno in quello che sarà poi il suo “uomo”. Diego Rivera, affermato pittore dell’epoca, figlio della rivoluzione e personaggio di spicco del partito comunista dimostra di credere in lei anche contro la sua iniziale diffidenza. E’ l’inizio di una straordinaria, toccante, impaziente, stravagante e delirante storia d’amore che neanche i tradimenti continui del Rivera e le varie esperienze “libertine” (la bisessualità di Frida è quasi chiara nel film, anche se limitata ad un particolare momento) tra il Messico, gli Stati Uniti, l’Europa, Trozky, la prigione, riusciranno a scalfire. In tutto questo viaggio i due amanti capiscono che gli esseri umani hanno bisogno di spazi individuali e creano due universi paralleli uniti da un ponte, un ponte che li unisce e li separa, che li rende diversi ma, in fondo così simili, fino a creare quasi un’utopia dove si può essere di tutti ma non appartenere a nessuno. In realtà il (la) regista di questo film non poteva che essere una donna, perché questa pellicola è il più grande inno alla grandezza, all’intelligenza e all’emancipazione femminile che si sia mai prodotto. Julie Taymor fa veramente un gran bel lavoro. Vediamo rappresentata una donna coraggiosa, bella oltremodo, forte, e che metterà nelle sue opere tutta la sua energia, un potentissimo antidolorifico per la vita. Per il resto è difficile descrivere in altro modo il film se non attraverso le immagini e i suoni perché alla fine questo fu Frida Kahlo (Salma Hayek, perfetta), la grande ocultadora, nel tentativo di frapporre la forza devastante delle sue immagini alla fragilità del suo corpo. E in tutto questo mare di rude bellezza pure un personaggio senza morale come Diego Rivera (interpretato da uno straordinario Alfred Molina) appare funzionale alla nascita di una straordinaria, forte e indimenticabile Artista.

Un film uscito ben 14 anni fa che vi consiglio VIVAMENTE di guardare, oggi.

Codice 999

Il codice del titolo è quello che identifica una situazione in cui un agente è colpito e la cui gravità impone che tutte le unità vengono mobilitate, di fatto lasciando buona parte del resto della città sguarnita. Al centro di tutto c’è un gruppo di poliziotti corrotti che compiono una rapina all’inizio per conto di un grosso boss, il quale però desidera un altro colpo e glielo fa capire uccidendo uno di loro. Questo secondo colpo sarà finalizzato a rubare informazioni e per portarlo a termine serve un codice 999. Il piano è sacrificare un novellino per riuscirci. Il novellino non sarà così facile da sacrificare.
Dinamiche essenziali e molti colpi, molte azioni di polizia durante le quali mandare avanti la trama. La prima componente azzeccata di questo film di John Hillcoat è quella di non voler mandare avanti tutto a dialoghi ma di far succedere gli eventi e durante essi raccontare la trama. La vita dei poliziotti è fatta di lavoro, tantissimo lavoro, di una quotidianità marcia nella quale si stringono le dinamiche umane.
Non deve quindi stupire che la sceneggiatura di Codice 999 sia rimasta a lungo nella black list (l’elenco di script che per un motivo o l’altro non sono stati acquistati da nessuno studio), serviva infatti una chiara visione degli eventi e una mano ferma per gestire così tanti personaggi, stabilire gerarchie cinematografiche tra di loro e riuscire a dar vita all’atmosfera giusta, che nel poliziesco è tutto, viene anche prima della comprensibilità della trama.

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Il complotto di Chernobyl – The russian Woodpecker

«Il complotto di Chernobyl – The Russian Woodpecker» è uno dei documentari più potenti che si siano visti in sala negli ultimi mesi. Il regista Chad Gracia segue le ricerche di un artista ucraino, Fedor Alexandrovic, che nel 1986, quando avvenne il disastro di Chernobyl, aveva solo quattro anni e viveva poco distante dalla centrale nucleare. L’indagine di Alexandrovic lo porterà a scoprire un legame tra la tragedia e la Duga, un’antenna che ai tempi della Guerra Fredda doveva interferire con le comunicazioni occidentali e infiltrarle di propaganda sovietica. Una struttura che non ha mai funzionato e che, forse, non è estranea allo scoppio del reattore. E se non si fosse trattato di un incidente? Da questa domanda parte «Il complotto di Chernobyl – The Russian Woodpecker», un documentario che somiglia a un thriller, inquietante e angoscioso dal primo all’ultimo minuto. Tra teorie di complotto, coincidenze spaventose e slanci paranoici, Chad Gracia racconta un uomo ucraino che, come tanti connazionali, è tornato a farsi delle domande che non hanno mai avuto una risposta. Nel bel mezzo della rivoluzione ucraina, Fedor Alexandrovic deve fare una scelta non facile: svelare a tutti ciò che ha scoperto oppure rimanere in silenzio per proteggere la sua famiglia. Scioccante e spaventoso, il film coinvolge nel modo giusto.

Batman v Superman: Snyder come Caravaggio

Il 23 marzo 2016 esce al cinema il film diretto da Zack Snyder, basato sui personaggi dei fumetti DC Comics, è il sequel de L’uomo d’acciaio del 2013 e la seconda pellicola del DC Extended Universe.

Lo scontro epico tra i due più grandi eroi del mondo: il paladino di Metropolis, Superman (Henry Cavill), e il campione di Gotham, Batman (Ben Affleck), non inedito per i fumetti ma totalmente innovativo per quello del cinema. Per la prima volta sul grande schermo si vede la presenza contemporanea dei due personaggi. Temendo le azioni incontrollate di un Supereroe semidio, il potente giustiziere di Gotham City affronta il più rispettato eroe dei nostri tempi di Metropolis, mentre il mondo si divide su quale tipo di eroe abbia veramente bisogno.

Una vera e propria lotta tra il giorno e la notte; tra Batman, il giustiziere mascherato, cavaliere delle tenebre e Superman, l’imbattibile alieno dello spazio. Chi l’avrà vinta?

Magistrale la musica composta da Hans Zimmer, che accompagna tutte le scene di azione, trasmettendo allo spettatore suspance.

Interessante ed opinabile la scelta del contrasto di luci ed ombre nella scenografia. L’uso di un vero e proprio “Chiaroscuro” per ottenere un effetto più drammatico. La scena è paragonabile ad un quadro di Caravaggio, dove il chiaroscuro drammatico diventa una dominante stilistica, denominato anche “tenebrismo”. Infatti Caravaggio utilizza in molti dei suoi dipinti, profondi sfondi scuri, facendo sì che alcuni volti dei suoi personaggi risultassero illuminati come da un riflettore.

Questo crea un contrasto elevato con effetti intensamente potenti e drammatici.

Batman v Superman è molto più di un film d’azione, infatti tutti i personaggi – da Lois Lane (Amy Adams) a Lex Luthor (Jesse Eisenberg), da Perry White (Laurence Fishburne) ad Alfred (Jeremy Irons) pongono vere e proprie riflessioni sui destini ultimi dell’umanità e del singolo. Affermazioni pessimistiche arrivano da Superman:“nessuno resta buono a questo mondo” e Batman: “il male ha senso solo se lo costringi ad averlo”. Lex alza gli occhi e intima apocalittico che “i diavoli non vengono dall’inferno sotto di noi, vengono dal cielo”. Tema centrale del film: Superman è un dio. Appare fluttuante nel cielo controluce, viene cercato e toccato dalla gente come se questo fosse un rito propiziatorio. Proprio questa caratteristica è la più dibattuta nel film. Se questo è un dio, abbiamo motivo di ritenerlo infallibile e affidarci a lui? Temendo le azioni incontrollate di un Supereroe semidio, il potente giustiziere di Gotham City affronta il più rispettato eroe dei nostri tempi di Metropolis, mentre il mondo si divide su quale tipo di eroe abbia veramente bisogno. A tale proposito sorge spontaneo domandarsi se sia un caso che Batman v Superman arriva al cinema nell’anno delle elezioni presidenziali?

E con Batman e Superman in lotta tra di loro, una nuova minaccia si staglia rapidamente all’orizzonte, ponendo la razza umana nel più grande pericolo mai affrontato prima. Ed è a questo punto che i supereroi collaborano per il bene dell’umanità. Accorre anche Wonder Woman, che per tutto il film si vede poco. Snyder fa incontrare tutti e tre i personaggi in una precedente scena, ambientata in una grande festa, tutti in borghese, ignari gli uni degli altri. In quella scena di massa si vede subito che quel personaggio non appartiene al loro mondo, ha un’altra classe, un altro portamento, è Wonder.

Batman V Superman: Dawn of Justice, la recensione dell’esplosivo cinecomic di Zack Snyder

Era il lontano 1986 quando Frank Miller immaginò per la prima volta lo scontro epico tra questi due iconici supereroi americani, con la miniserie a fumetti Il Ritorno del Cavaliere Oscuro. Dopo mesi di trepidante attesa, il 23 Marzo arriva nelle sale italiane Batman V Superman: Dawn of Justice, l’esplosivo film di Zack Snyder che porta per la prima volta sul grande schermo la resa dei conti tra il kryptoniano e il pipistrello di Gotham City. Questa contrapposizione tra Dio e uomo, tra il buio e la luce, scuote inevitabilmente il mondo e l’intera umanità, intenta a trovare un posto per queste figure potenti ed apparentemente indistruttibili, in grado di salvarli o distruggerli. Tuttavia, mentre prende forma questo scontro tra titani, un giovane e psicotico Lex Luthor permette la nascita di una nuova grande minaccia che ha il nome di Doomsday. E fa la sua prima affascinante apparizione Gal Gadot nei panni di Wonder Woman.

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In questo film che si può considerare il sequel di Man of Steel o il prequel di The Justice League, Henry Cavill torna a vestire i panni di un Superman luminoso e stoico, impegnato a portare avanti la sua doppia vita nella quotidianità. Da una parte il suo amore per Lois Lane e il lavoro al Daily Planet, e dall’altra la responsabilità dei pericoli e delle minacce provenienti da tutto il mondo. Gli esseri umani sono divisi tra chi lo adora come un Dio e chi lo crede responsabile dei grandi disordini che hanno causato morte e distruzione per molti anni. Tra questi ultimi c’è Batman, interpretato da Ben Affleck, che sostituisce il Christian Bale della trilogia di Christopher Nolan. Il suo è un Batman brizzolato che ha combattuto per molto tempo il crimine e sta cercando di ristabilire un equilibrio tra giusto e sbagliato mentre il tragico passato lo tormenta costantemente. Dopo 300, Watchmen e Man of Stell, Snyder accetta la difficile sfida di portare sullo schermo la sceneggiatura di Chris Terrio e David S. Goyer, ricca di filoni narrativi che in un primo momento coinvolgono pienamente nell’azione, per poi confondersi ed ingarbugliarsi con qualche scena di troppo. Fin dal prologo lo slow motion tanto amato dal regista americano detta le regole ma con una certa funzionalità, sottolineando quell’atmosfera affascinante che unisce eroismo e misticismo per l’intera struttura narrativa. Batman V Superman: Dawn of Justice è un cinecomic nella sua essenza più classica, ma assume un tono dark intrigante che emoziona e accende la curiosità dello spettatore che non vede l’ora di vedere cosa succede in seguito.

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Snyder punta molto sulla potenza visiva del film, un fattore che da sempre gli sta molto a cuore, ma tiene comunque le redini della storia, peccando solo in qualche momento poco chiaro sul quale si può passare sopra se si gusta il film come un semplice blockbuster action e scenografico creato per puro intrattenimento. La composizione delle inquadrature lascia senza fiato e respira della magia e di quel senso di etereo a cui Snyder ci ha abituato fino ad oggi. Si può amare od odiare, ma la sua regia è riconoscibile e si distingue per i dettagli. Lo spettatore assiste ad uno scontro sismico tra le strade di Metropolis, incontrando due protagonisti perfetti per i loro ruoli, una new entry interessante come Wonder Woman e un bravissimo Jesse Eisenberg nei panni di Lex Luthor, nel corso di una storia ricca di azione, adrenalina ed effetti speciali. Non mancano i camei dal mondo dei fumetti che ovviamente non vi spoileriamo, ma un altro aspetto interessante è l’estrema attualità che si avverte in un film fantastico e surreale come questo. Guardando le strade avvolte dalla polvere in seguito a brutali esplosioni, dialoghi con terroristi coinvolti a livello globale, e minacce silenziose che vengono allo scoperto senza lasciare via di uscita, è inevitabile che il pensiero vada ai tanti eventi drammatici che si vivono nella realtà storica presente. Un cinecomic all’ombra del terrorismo e delle immancabili dinamiche politiche…peccato non ci siano Batman e Superman a tenerci al sicuro da questa assordante violenza e ignoranza.

 

 

Intervista a Nicola Guaglianone, l’uomo che sta dietro a “lo chiamavano Jeeg Robot”

[show_avatar email=1 user_link=authorpage avatar_size=50]Nicola Guaglianone è uno scrittore creativo romano che a noi piace molto. Insieme a Gabriele Mainetti è l’uomo dietro il “robot” del film evento “lo chiamavano Jeeg Robot” che esordisce OGGI (25 febbraio) in tutte le sale italiane. Ci ha risposto con molta cordialità appena lo abbiamo contattato e tra me e lui (siamo coetanei) è iniziata subito l’empatia nerd anni 80, l’ho riassunta tutta qui, ma siamo andati anche in radio e, dopo aver letto TUTTA l’intervista (non fate i furbi) potrete anche ascoltare la sua voce, ci ha svelato tante interessanti novità.

Nicola Guaglianone, sceneggiatore di Lo Chiamavano Jeeg Robot
Nicola Guaglianone, sceneggiatore de Lo Chiamavano Jeeg Robot
T.: Caro Nicola, tu come me fai parte di quella generazione cresciuta nel mito dei cartoni animati giapponesi (anime) che hanno invaso il nostro paese tra la fine degli anni 70 e la metà degli anni 80. Come è nata l’idea di questo progetto? Come l’avete “assemblato” tu e Gabriele (Mainetti) ?

N.G.: Come hai detto tu, siamo quella generazione cresciuta a “pane e Bim Bum Bam”, siamo quella generazione che veniva lasciata ore e ore davanti alla TV, che ci faceva un po’ da balia. Quando io e Gabriele abbiamo iniziato a pensare a LCJR abbiamo fatto riferimento a quello che era il nostro immaginario, il nostro rapporto col MITO.

Il MITO è quello che porta un po’ del nostro peso sulle sue spalle, quel mito che è stato il nostro compagno di giochi da bambini e che abbiamo cercato di riadattare ad una realtà prettamente italiana.

La sfida è stata proprio quella di unire dei generi che, per definizione, non si appartengono. Da un lato il mito degli eroi (giapponesi o USA) e dall’altro il cinema che abbiamo sempre amato, penso a Sergio Leone, Pasolini, Calligari, che, quest’ultimo, con Amore Tossico ci ha influenzato non poco.

Abbiamo cercato di prendere due immaginari ed unirli insieme, cercando un’armonia.

Foto di Emanuela Scarpa
Foto di Emanuela Scarpa
T.: Perché la scelta della periferia romana per il film?

N.G.: Anche per Basette e Tiger Boy noi abbiamo attinto al mito (Lupin e l’Uomo Tigre) ma lo abbiamo adattato ad un ambiente tutto italiano, utilizzandolo per raccontare la realtà di una periferia spesso dimenticata. Abbiamo usato il MITO per raccontare le storie degli ultimi, degli emarginati, di coloro che spesso sono dimenticati. E in lo chiamavano Jeeg Robot questo tema ritorna più forte che mai.

La mia esperienza di lavoro in un centro di integrazione sociale a Tor Bella Monaca mi ha dato la spinta e la voglia di parlare di questa parte della capitale che in pochi raccontano.

Raccontare quel tipo di umanità mi ha sempre stimolato.

L’emarginazione è a 2 ore dal centro…

T.: Jeeg Robot c’entra poco con il film, giusto?

N.G.: Io non direi, Jeeg c’entra poco come c’entrava poco Lupin con Basette o Tiger Man con Tiger Boy, abbiamo utilizzato il mito, come ti ho detto prima, per raccontare storie umane. In realtà è proprio grazie al mito si può raccontare questa storia.

Nello specifico Alessia usa Jeeg Robot per sfuggire ad una realtà difficile per lei, per il suo trascorso e per quello che ha subito fin dalla tenera età.

D’altro canto nello stesso tempo la fragilità di Alessia è il mezzo attraverso il quale un uomo supera la sua chiusura verso il mondo.

Lo chiamavano Jeeg Robot è la storia della rieducazione sentimentale di un misantropo che pensa solo a se stesso ma che grazie all’amore di una donna arriverà a quel principio morale che ispira molti supereroi e cioè che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”.

T.: I tre personaggi principali della storia, a loro modo dei giganti. Enzo, Alessia e lo Zingaro ma come mai questo riferimento alle icone pop italiane anni 80?

N.G.: Volevamo creare un cattivo che non fosse un villain e basta, ci piaceva dotarlo di fragilità, la fragilità di un uomo che si sente sempre insoddisfatto, che non si sente mai abbastanza, sempre alla ricerca di una “grande occasione” che gli è sfuggita dalle mani una volta. Un uomo legato al passato, legato ad un appuntamento mancato.

Se da un lato la “svolta” di Enzo è una svolta principalmente sentimentale per lo Zingaro, invece, svoltare significa guadagnarsi il rispetto degli altri, e questo gli farebbe compiere qualsiasi atto.

T.: Avete sdoganato il supereroe italiano, andando anche al di là del Ragazzo Invisibile di Salvatores, come prevedi che risponderà il pubblico?

N.G.: Mi auguro che ci sia una risposta forte del pubblico, calorosa e numerosa. Nelle proiezioni a cui ho assistito ho visto tantissimo entusiasmo, mi è sembrato davvero di vedere quei film di Bud Spencer e Terence Hill, dove il pubblico partecipava con grande trasporto.

Questo film è intrattenimento puro ma è anche un film duro, dove si intrecciano generi e sottogeneri, c’è una storia d’amore legata ai 2/3 del racconto. Molto della trama gira su questo perno.

T.: Lo chiamavano Jeeg Robot avrà un seguito?

N.G.: L’idea c’è, abbiamo tracciato un percorso, ora la sfida è trovare un altro tema forte, fare un racconto che sia prettamente italiano, perché LCJR è un film assolutamente italiano, un film dove ci si relaziona al potere nella maniera assolutamente e totalmente italiana.

Accompagneremo le persone in un viaggio, “cosa succederebbe ad un ladruncolo di periferia italiano se all’improvviso si ritrovasse, per caso, un superpotere?”.

Dobbiamo dare la connotazione di unicità alla prossima storia, deve essere un film che potrebbe essere girato solo in Italia.

Ho già scritto la bozza di un soggetto che potrebbe essere il nostro prossimo lavoro, ma, in ogni caso, ci confrontiamo e cerchiamo sempre di tirare fuori, come per i cortometraggi, qualcosa di unico.

Se riusciremo (io e Gabriele) a conservare il “pischelletto”, il fanciullino, che è in noi, allora continueremo il progetto, altrimenti lo accantoneremo.

T.: Quanto ha bisogno in questo momento l’Italia di un supereroe?

N.G.: C’è sempre bisogno di miti per crescere, poi è importante, dopo andare avanti con le proprie gambe.

Se devo dire la mia, credo che in questo momento in Italia manchi la MERITOCRAZIA, parlando del mio lavoro, mi piacerebbe che un giovane che scrive in questo momento possa emergere. Per un giovane, in questo momento, fare lo scrittore in Italia è difficilissimo. Per fortuna oggi, con internet, con costi limitati, o quasi pari a zero, riesci farti conoscere, e alla fine, se sei bravo, perché non credo nei geni incompresi, vieni fuori.

T.: Cosa vogliamo dire ai nostri lettori per concludere questo nostro incontro?

N.G.: Andate a vedere il film, “correte ragazzi laggiù”, al cinema.

Siamo d’accordo, CORRETE AL CINEMA STASERA,  non ve ne pentirete.

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L’intervista su Radio OIM:

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Berlinale 2016: Jude Law è il celebre scrittore Thomas Wolfe in Genius

L’attore Michael Grandage debutta alla regia con Genius, il biopic con Colin Firth, Jude Law, Guy Pearce e Nicole Kidman, che racconta il rapporto professionale e l’amicizia tra Max Perkins e il celebre scrittore Thomas Wolfe.  “Tom ambiva a trovare dentro di sé una voce originale e profetica rispetto alle mode letterarie vigenti, aveva immense capacità di scrittura. La sfida più ardua per me e penso per Colin è stata quella di aderire alla loro velocità di pensiero. Questi due grandi talenti avevano un’abilità intellettuale pazzesca, difficile da riprodurre. Abbiamo dovuto provare molto” ha spiegato Jude Law durante la conferenza stampa del film, presentato in anteprima alla Berlinale 2016, e atteso nelle sale italiane nel prossimo autunno 2016 distribuito da Eagle Pictures.

urlIspirato alla biografia scritta da A.Scott Berg, Genius racconta l’inizio della carriera dello scrittore americano contemporaneo Wolfe, dal momento in cui il curatore editoriale Max Perkins esclamò: “Voglio pubblicare il tuo libro!” Si trattava di O, Lost noto al pubblico con il titolo di Angelo, guarda il passato.  Responsabile del successo di alcuni dei talenti letterari più imponenti del ‘900, come F. Scott Fitzerald ed Ernest Hemingway, con il suo cappello sempre in testa e una grande passione per il suo lavoro, Perkins, interpretato magistralmente da Colin Firth, era un uomo fedele alla famiglia, che dedicava gran parte delle sue giornate ai libri e alla ricerca di artisti in grado di raccontare storie. Thomas Wolfe, una personalità eccentrica ed estrosa, che Jude Law riesce ad incarnare in modo equilibrato e verosimile, regalando al pubblico un personaggio interessante da scoprire nel corso del film, lo colpisce ed instaura con lui un legame viscerale, guidato da una passione e un intento comune: far conoscere al mondo le centinaia di pagine inedite tenute insieme con un vecchio spago. Grandage non realizza un biopic nel senso più classico, ma piuttosto gestisce bene un cast di alto livello per un film biografico tra ironia e dramma, che permette di conoscere meglio una figura che ha ispirato la Beat Generation ed influenzato autori come Jack Kerouac. Una buona alchimia si avverte nella coppia Law e Firth sulla scena, anche se la sceneggiatura è poco incisiva e poteva esigere qualcosa di più in relazione alla storia narrata. Esilarante e degna di attenzione la partecipazione di Nicole Kidman nei panni della compagna di Thomas Wolfe, fortemente dipendente da lui e vittima dell’incapacità del genio di prendersi cura di qualcun altro e allergico alle relazioni. Genius è un film consigliato a metà, che tuttavia convince nel complesso, presentando una debole struttura narrativa e una regia ordinaria.

TRAILER

 

Lo chiamavano Jeeg robot, storia di un eroe che non voleva esserlo

[show_avatar email=76 align=left user_link=authorpage show_name=true avatar_size=50]Quando guardo un film su Roma mi fa sempre un certo effetto, luoghi che riconosci quell’atmosfera magica che rivivi e che solo Roma ti può dare. Il film che non parla di quella grande bellezza alla Sorrentino, mostrata nelle vie del centro ma della periferia oscura e fatiscente di Tor Bella Monaca. Non in centro dove c’è ancora giustizia, ma nei luoghi non luoghi dove la giustizia si crea da sé.

Il regista Gabriele Mainetti
Il regista Gabriele Mainetti

Lo chiamavano Jeeg Robot è il primo lungometraggio diretto da Gabriele Mainetti, coraggioso per molti motivi, uno di questi di aver prodotto un film del genere in Italia, terra di cinepanettoni. Si, il coraggio o come dice lo stesso regista la curiosità di proporre qualcosa di diverso; perché non è vero che il pubblico italiano ama vedere solo commedie sentimentali, ma la dura verità è che ultimamente si producono solo film di quel tipo. Dopo l’operazione di innesti compiuta per esempio da Gabriele Salvatores con Il Ragazzo Invisibile, lo chiamavano Jeeg Robot potrebbe essere un altro tentativo del cinema italiano recente di avvicinarsi a quel territorio condiviso tra fumetto e cultura pulp. Un ragazzo come tanti, Enzo (Claudio Santamaria), scoprirà di possedere una forza straordinaria in seguito alla caduta in mezzo a del materiale radioattivo nel fiume Tevere.

Da quel momento la vita di Jeeg Robot non sarà più la stessa. Protagonista un eccellente Claudio Santamaria, nei panni dell’antieroe per antonomasia, che al contrario di personaggi come Clark Kent (Mitico Superman) o Bruce Wayne (Batman), il nostro Enzo non possiede nulla a parte la sua determinazione.

Il protagonista Claudio Santamaria

Ci fa riflettere su quali siano davvero i valori che ci rendono degli eroi, che non sono i super poteri ma le ragioni che ci muovono. Sempre burbero, il protagonista si ritroverà a trasformarsi da ladro a difensore del bene anche grazie alla sua compagna Alessia (Ilenia Pastorelli) che gli ricorda che “C’è un sacco di gente da salvare” e cerca di far uscire il suo se stesso migliore.

L’attrice Ilenia Pastorelli, una grandissima interpretazione
Marinelli e il cast del film con il regista Mainetti

Il Terzo attore protagonista di questo film è Luca Marinelli, già conosciuto dai più in “Non essere cattivo” nella parte del pazzo Cesare. Anche qui il nostro Luca farà il cattivo, colui cioè che frequenta le peggiori compagnie della capitale e che insieme al Genny Savastano di Gomorra, ce la metterà tutta per togliere di mezzo il nuovo difensore della città, Jeeg Robot, che non gli permette di fare i suoi interessi nella Capitale.

Ben girato, ben scritto e ben interpretato, nonostante new entry nel mondo del cinema come Ilenia Pastorelli, che ci regala una performance davvero reale esplosiva, dolorosissima, quasi agonizzante nella propria apparente mancanza di lucidità. Il film sarà distribuito nelle sale da Lucky Red dal 25 febbraio 2016. Io vi consiglio di andarlo a vedere, perché nonostante non ami tanto queste saghe di super eroi, mi ha piacevolmente sorpreso e emozionato, tutti in fondo abbiamo ancora bisogno di credere negli eroi: per poter migliorare noi stessi e avere ancora fiducia nelle bontà delle persone, proprio come il nostro Jeeg Enzo.