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Verga e ‘La Roba’, tornare a raccontare ‘veramente’ la ‘realtà’ spaventa

Per comprenderlo in ogni sfumatura bisogna leggerlo. Giovanni Verga, insieme a Luigi Capuana è considerato il padre del “verismo”, corrente letteraria che nell’800 spinse la letteratura e gli intellettuali del tempo ad occuparsi (finalmente) della realtà, a descriverla non può attraverso canoni schematici e accademici ma attraverso uno stile “nuovo” che la faceva dunque “parlare”. Ispirata al positivismo e al naturalismo, la nuova corrente letteraria mira a fotografare oggettivamente la realtà sociale rappresentandone rigorosamente le classi, anche quelle più umili, in ogni aspetto anche quelli negativi e sgradevoli. Una “ricerca letteraria” che prenderà il via a Milano (vera Capitale della Cultura al tempo) e che si diffonderà subito nel resto del paese. Verga, Capuana, Grazia Deledda, Renato Fucini ecc., saranno dei grandi innovatori e porteranno alla ribalta “realtà” sino ad allora escluse dal dibattito intellettuale e anche politico. Tra gli autori che in quel tempo maggiormente hanno lasciato un segno indelebile nella cultura italiana spicca Verga. Giovanni_Verga_1L’autore de “I Malavoglia, “Storia di una capinera”, “Mastro Don Gesualdo”, “Novelle Rusticane”, ecc., nonché in vecchiaia Senatore del Regno d’Italia per volontà del Re Vittorio Emanuele III, sarà tra i maggiori autori di successo della corrente del “verismo”. L’utilizzo del “principio dell’impersonalità”, con una narrazione distaccata, rigorosamente in terza persona, e l’utilizzo di vocaboli tratti dai dialetti, in particolar modo quello siciliano, sono gli elementi salienti che caratterizzano la nuova corrente letteraria. Spicca poi l’interessa per le questioni socio-culturali. Nella produzione di Verga si torna a parlare della questione meridionale, dei costumi e delle usanze, del modo di vivere completamente diverso rispetto al Nord Italia, dunque delle differenze culturali e tutte le tematiche ad esse connesse. Verga2Tra i principali concetti sviluppati dall’autore vi è quello dell’impossibilità per un personaggio di umili origini di riuscire, per quanto esso valga, a riemergere da condizione in cui è nato. In poche parole per Verga non è possibile che un povero diventi ricco. Una visione che può sembrare pessimistica e fatalista della società ma che invece rispecchia perfettamente la società del suo tempo e che presenta innumerevoli spunti di riflessione anche per la nostra società contemporanea dove da tempo ormai, a seguito soprattutto della crisi economica, nei Tg, sui social network, nelle indagini statistiche, dagli organi d’informazione, si ascolta l’espressione “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. verga 3Ma la ricchezza è spesso ingannevole ed apparente, come ricorda lo stesso Verga nella novella “La Roba”. Il povero e umile Mazzarò ai arricchisce col suo duro lavoro, ma le sue ricchezze non lo emanciperanno. Proprio per approfondire questi temi e aspetti, riportiamo di seguito integralmente la novella “La Roba”, tratta da le “Novelle Rusticane”:

“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: – Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: – Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò. verga5Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. verga4Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: – Curviamoci, ragazzi! – Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. – Costui vuol essere rubato per forza! – diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: – Chi è minchione se ne stia a casa, – la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: – Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. – Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! – diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. – Lo vedete quel che mangio io? – rispondeva lui, – pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: – Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? – E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. verga6E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: – Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! – Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me! – ”

“Contesti”, pronto il programma del Festival dei Libri a Carinola

Dopo l’attesa delle scorse settimane, finalmente è stato reso noto il programma della kermesse culturale “Contesti – Il Festival dei Libri” che si terrà a Carinola il 18 e 19 dicembre. L’evento promosso dall’associazione “Amici della Biblioteca di Carinola” è giunto alla sua seconda edizione dopo il grande successo dello scorso anno. Lo spirito dell’iniziativa è quello di “promuovere la lettura, creare un ponte agevolato tra autore, testo e lettore”, affermano i ragazzi dell’AABC. carinola“CONTESTI è l’incontro della letteratura con le altre arti che toccandosi, si influenzano a vicenda. Il festival nasce da un’ idea dell’associazione AABC (‘’Amici della Biblioteca di Carinola’’) Biblioteca che da circa tre anni gestisce, in forma di volontariato, la Biblioteca Comunale di Carinola e si impegna nella realizzazione di eventi quali presentazioni di libri, cineforum, mostre, spettacoli teatrali e musicali – spiegano gli organizzatori tramite la loro pagina Facebook – Convinti che la cultura non sia appannaggio esclusivo dei palcoscenici delle grandi città, questo festival è il tratto di unione tra gli eventi annuali, intesi come canali che agevolano la promozione e la diffusione della cultura vissuta in tutte le sue sfaccettature, anche nei piccoli centri come Carinola. CONTESTI è legato all’arte di dire parole, di progettare, sviluppare ed infine porgere idee, attraverso vari incontri che si susseguono in diversi momenti spazio-temporali, così da permettere a tutti di godere di ogni singolo evento. Accanto agli stands delle case editrici e alle presentazioni di libri, ci saranno laboratori, esposizioni di arti illustrative, performances artistiche, teatrali e musicali.I due giorni di festival vedranno susseguirsi laboratori per varie fasce di età, che si svolgeranno in mattinata e nel primo pomeriggio. CONTESTI si svolge nel quattrocentesco Palazzo Novelli-Petrucci, preziosa testimonianza di architettura catalana in Campania, fiore all’occhiello di un paese ricco di monumenti – proseguono –; infatti, nei giorni del festival, saranno garantiti visite guidate nei siti artistici ed archeologici del luogo, a cura dell’ Archeoclub di Carinola. Palazzo Novelli fu costruito per volere di Antonello Petrucci nella seconda metà del ‘400 con l’intervento di maestranze catalane. Restaurato nel 1998, l’edificio conserva l’aspetto che acquisì nel XV secolo, mostrandosi come uno degli esempi più significativi del linguaggio architettonico catalano nella Campania settentrionale. CONTESTI significa arricchire la vita culturale di Carinola e di tutto il territorio con una iniziativa che si ripropone anche quest’ anno rappresenta un ulteriore contributo che l’Associazione degli Amici della Biblioteca ha voluto dare alla realtà locale, perché essa possa crescere e svilupparsi sia culturalmente che socialmente. ContestiCONTESTI è il festival dei libri, una finestra sul loro mondo per scoprire nuovi autori, nuovi testi ed avvicinarsi a quelli già noti. Riflettere sulle tendenze e sulle nuove strade che il mercato culturale italiano sta imboccando, per capire come riportare l’arte ad essere un punto fermo della nostra società e della nostre vite. CONTESTI è un discorso aperto che ha bisogno di te per essere vissuto, delle tue orecchie per essere ascoltato”. Il programma della manifestazione è ricco di appuntamenti assolutamente da non perdere: – Venerdì 18, ore 11:00 Fuori Catalogo incontra la band The Orange Beach, per un dialogo sul filo rosso che collega la musica ed il libro; ore 15:00 LETTERATURA DISEGNATA, apertura della mostra dedicata al fumetto. Espongono: Enzo Troiano, Giancarlo Covino, Simone Lucciola e Rocco Lombardi, Scuola italiana di Comix, Daniele Bigliardo; ore 15:30 Giancarlo Covino, illustratore e architetto, incontra il pubblico di Contesti per realizzare insieme un fumetto corale; ore 17:30 CADE LA TERRA di Carmen Pellegrino: la scrittrice e abbandonologa parla del suo ultimo lavoro con Concetta Maria Pagliuca di Legenda Letteraria. Mostra fotografica sul tema dell’abbandono a cura di Sara Capomacchia; ore 19:00 EUROPA ANNO ZERO – Il ritorno dei nazionalismi di Eva Giovannini: un dibattito politico attuale con la giornalista, autrice del libro e con la partecipazione di Antonio Pascale; ore 21:30 TRAGICO AMMORE – struggimenti, giaculatorie e smarrimenti: teatro-canzone con Canio Loguercio (voce e chitarra) e Alessandro D’Alessandro (organetto- live electronics). carinola 2A seguire dj-set. – Sabato 19, ore 11:00 RICEVERE I CLASSICI: il mito della tragedia greca sulla scena contemporanea: il drammaturgo Francesco Puccio discute sul tema della ricezione dei classici nel mondo contemporaneo; ore11:30 Visite guidate al centro storico di Carinola a cura dell’Associazione Archeoclub; ore 15:00 COSTRUIAMO UN LIBRO laboratorio per bambini a cura di Artétèca at work: i più piccoli si avvicinano alla dimensione fisica del libro realizzandone uno a mano; 15:00 I MIEI GENITORI NON HANNO FIGLI di Marco Marsullo: l’autore presenta il suo ultimo libro con la giornalista Lidia Luberto; ore 15:30 Visite guidate al centro storico di Carinola a cura dell’Associazione Archeoclub; ore 17:30 L’ODORE DELLA POLVERE DA SPARO di Attilio Coco: lo scrittore discute del suo libro con il Prof. Filippo Ianniello; ore 19:00 TERAPIA DI COPPIA PER AMANTI di Diego De Silva: reading letterario con l’autore. Introduce Antonio Pascale. A seguire Aperitivo; ore 21:00 RICOMINCIO DA MASSIMO, monologo-spettacolo di e con Antonio Pascale; ore 22:30 THE NIRO, nome d’arte di Davide Combusti, cantautore e polistrumentista romano, tra le tappe del suo tour ha scelto Contesti.

TRUFFE E SCANDALI ALLA CORTE DI NAPOLI

La storia di Angelo Carasale, imprenditore di Carlo di Borbone.

Da che mondo è mondo, nella storia, imprenditoria e politica se ne vanno a braccetto. Il potere si manifesta con le opere e le opere vanno realizzate, facendo la fortuna del prescelto di turno che spesso intesse col potere i più ambigui rapporti. Così fu anche per Angelo Carasale, impresario appaltatore alla Corte napoletana nel primo Settecento. Figlio di un umile fabbro, Angelo aveva fatto velocemente carriera ricorrendo ad alcune protezioni politiche. All’arrivo di Carlo di Borbone a Napoli, si ingraziò il marchese di Montealegre, duca di Salas e Primo Segretario di Stato, che gli facilitò il difficile compito di entrare nelle grazie del nuovo re.
Nel 1734 gli viene riconfermato l’appalto per la fusione di mortai e cannoni che gli era già stato concesso sotto l’amministrazione austriaca. In quel caso si trattava di realizzare ventiquattro cannoni di bronzo destinati ad armare la squadra delle galere. Solo due anni dopo, nel 1736, Angelo ottiene l’appalto per ogni opera “che richieda spesa”, a partire dalla costruzione del Palazzo Reale di Napoli e del Teatro San Carlo. Viene nominato appaltatore delle reali fabbriche, dei castelli del Regno e della città di Napoli, fornitore di viveri, munizioni e del vestiario militare. Riceve anche la nomina di tenente colonnello. Nel 1738 raggiunge l’apice della carriera.

E’ estate e la regina Maria Amalia di Sassonia, figlia appena dodicenne di Augusto III di Polonia, sta per raggiungere Napoli per unirsi al suo promesso sposo Carlo. La città è tutta un pullulare di preparativi e Angelo, in coppia con l’architetto e ingegnere Giovanni Antonio Medrano, riceve l’incarico di allestire le luminarie e gli apparati scenici per i festeggiamenti. Il Largo di Palazzo si riempie di botteghe e al centro viene predisposta una bella fontana. A Palazzo si balla per tutta la notte, fino al mattino…

Grazie al successo delle sue iniziative la fiducia che Carlo di Borbone nutre nei confronti di Angelo si fa totale. Il re gli affida senza esitazione la costruzione sul Ponte del Garigliano “perchè la regina lo possa attraversare senza pericolo con calessi o cocchi”. Lo coinvolge nella realizzazione della nuova chiesetta di San Carlo, eretta al posto del Teatro di San Bartolomeo. Gli affida pure la costruzione di alcune fortificazioni in Toscana e della nuova Reggia di Capodimonte. I suoi guadagni divengono enormi tra l’indignazione dei cortigiani, che vedono un plebeo chiacchierare con il re come uno di famiglia, appoggiato tranquillamente alla Carozza Reale, tutto tracotante e disinvolto. Ormai è tanto ricco che può permettersi persino di dare sfarzosi ricevimenti nella sua abitazione, vicinissima a Palazzo, nei pressi della Chiesa di San Giacomo degli Spagnoli. La sua ricchezza è uno schiaffo alla povertà dei lazzari, spremuti di tasse e ai limiti della sopravvivenza.
Tuttavia la fortuna aiuta gli audaci e così gli viene affidata anche l’organizzazione delle opere in musica che si tengono nei teatri; e quando d’estate le sale chiudono per il caldo, l’intraprendente factotum si attrezza per predisporre le rappresentazioni all’aperto. Bisogna ammetterlo: quando la sorte ti bacia, ti rimpilza ben bene. Poi però, essendo cieca, può voltarsi da un’altra parte…
Potendoselo permettere, Angelo acquista carrozze e numerosi cavalli senza badare a spese; sperpera cifre spropositate per le sue donne e per il gioco. E allora, come non avere invidia per un modesto borghese che è in grado ormai di concedere addirittura sostanziosi prestiti alla nobiltà, grazie alla simpatia del Re e all’appoggio del suo Primo Segretario? Veramente solo di invidia si trattava?
Comunque sia, l’invidia talvolta è come un tarlo, che rosica piano piano il legno più duro. Sfruttando il punto debole dell’ormai famoso appaltatore, i nobili cominciano a progettare la sua rovina. Durante una serata trascorsa a giocare a carte a casa di Lucrezia Pignatelli, Principessa di Belmonte, Carasale accetta di sfidare il noto avvocato Andrea Vignés. Il gioco sfocia in lite e la Belmonte prende le parti dell’avvocato; poi, approfittando della sua amicizia con la regina Maria Amalia, prende a screditare l’impresario agli occhi dei sovrani.
Nel febbraio del 1739 cominciano a diffondersi voci di malversazioni. Si erano verificati ammanchi di bilancio e diffuse strane dicerie sul rapporto tra Montealegre e Carasale, su cui il Tribunale della Sommaria si era affrettato ad aprire un’inchiesta. Si indagava sulla sostanziosa somma di 266.860 ducati, pagati a vario titolo all’imprenditore, e in particolare sulle spese effettuate in occasione delle nozze dei sovrani, durante le quali si erano perpetrate molte truffe. Finiva in carcere il napoletano Michelino, tappezziere di Corte, che non aveva saputo trattenersi a tenere tra le mani un po’ più di denaro e si era dato alla bella vita. Finiva in carcere anche Clemente Bonocore, parente del Medico di Corte Francesco Buonocore e Cassiere Maggiore della Real Tesoreria. Li seguiva subito Monsieur Parisien, già sarto della Reale Corte di Parigi a servizio del re di Napoli, accusato di un ammanco di ventimila ducati. Si era inoltre dimostrata la colpevolezza di altri quattro periti, il cui compito avrebbe dovuto consistere nel verificare la corretta lavorazione di galloni, frange e ricami d’oro. Uno di essi aveva denunciato il tesoriere Buonocore, che li avrebbe invitati a stimare i lavori a prezzo maggiorato, in cambio di 1100 ducati a testa. Finiva sotto inchiesta anche il gioiellere reale Claudio Imbert d’Avignone, a cui la giunta incaricata della revisione dei conti contestava un’appropriazione indebita di 4000 ducati. Ma il più coinvolto nei preparativi del matrimonio reale risultava proprio il Carasale.
Durante il Carnevale del 1739 circolava già la voce che il disonesto imprenditore – fino a quel momento osannato con lodi sperticate – era stato visto giocare a basetta, un gioco d’azzardo proibito, in casa dell’avvocato Sessa e perdere migliaia di ducati. Persino i Gesuiti reclamarono denaro per alcuni terreni da lui acquistati vicino Capodimonte. Nonostante ciò, Carasale non ridusse lo sperpero dei suoi guadagni, sicuro – per appoggi o per innocenza – di uscire indenne dallo scandalo.
Secondo le gazzette dell’epoca, i suoi guai erano iniziati proprio in coincidenza delle nozze reali e con la grande Cuccagna organizzata per l’occasione alla Riviera di Chiaia: al Re i fuochi d’artificio erano parsi miseri rispetto alla spesa e l’episodio avrebbe generato i primi sospetti, più tardi rivelatisi fondati. Le indagini del Presidente della Sommaria Coppola e del fiscale Ripa accertarono in quel caso un esborso reale di soli 30mila ducati, rispetto agli 80mila stanziati. La storia si ripeté con il muro di cinta di Capodimonte e con il teatro San Carlo. Nel luglio del 1739, a Napoli, le inchieste giudiziarie sui conti presentati dal Carasale continuavano senza sosta: si stabilì, infine, di condannare l’appaltatore al risarcimento di 38mila ducati a favore del Real Patrimonio. Ma il peggio doveva ancora venire!
Nell’aprile del 1741 la figlia del Carasale, Dorotea, sposava Don Angelo Fernandez, uomo di fiducia della Segreteria di Guerra del Ministro Montealegre. Il matrimonio suscitò numerosi ed ulteriori pettegolezzi, sia per lo sfarzo che per l’ambiguo legame che sussisteva tra l’appaltatore e il Ministro. Infatti a Corte si diceva che Dorotea – con la compiacenza del Montealegre – avesse consumato il proprio matrimonio a Gaeta nello stesso letto in cui lo avevano consumato i sovrani.
Questo gesto di alterigia e di dissacrazione non poteva essere tollerato! A detta del Tanucci, il Re andò su tutte le furie. Per l’imprenditore era ormai l’inizio della fine…
Il Re, preoccupato, disgustato e deluso, gli toglieva la Soprintendenza di Capodimonte e la direzione del teatro San Carlo: al suo posto nominava come soprintendente di tutti i teatri, San Carlo compreso, il Barone di Liveri, compositore e attore di commedie in prosa. A giugno, un sopralluogo effettuato in Toscana alle nuove fortificazioni realizzate dal Carasale e costate una somma considerevole trovava le fabbriche inservibili e già cadenti per effetto di una cattiva costruzione. Nello stesso mese, il Tribunale della Sommaria intimava al Carasale il pagamento di 29mila ducati, ai quali bisognava sommare i 7mila che gli erano stati pagati per il baluardo di Castelnuovo, i cui lavori furono valutati molto meno rispetto alla spesa presentata. A luglio le prove venivano ritenute sufficienti e Carasale veniva arrestato tra beffe e dileggi al grido ambiguo di “Viva la Regina!”. Tra i nobili correva voce che l’arresto del Carasale fosse una manovra politica per indebolire lo strapotere di Montealegre e che autori dell’intrigo fossero i sostenitori della Regina. Il partito di Maria Amalia era capeggiato da Gaetano Boncompagni duca di Sora e dalla già citata principessa di Belmonte, che con il Montealegre avevano buoni potivi per avere il dente avvelenato. Ma anche il popolo poteva dirsi soddisfatto e fu grato al Re per aver impedito che il proprio denaro continuasse a gonfiare le tasche del furbo Carasale, che poi sciupava tutto “in fasti, giuochi, lussi e lussurie” .
Quell’estate in tutta Napoli ormai si parlava soltanto, tra beffe e risolini, della Caduta degli Angioli per debiti all’Erario, che aveva colpito Angelo Giannini, il Tesoriere Angelo Ussetta, l’imprenditore Angelo Carasale e suo genero Angelo Fernandez. Solo l’arrivo dell’ambasciatore turco Hagi Hussein Effendi con il suo seguito di teste con turbanti, cammelli, dromedari, tigri, struzzi, gazzelle e pecore, potè placare un poco inciuci e trame di Palazzo. Ambasciatore che ormai il povero Angelo non potè vedere, chiuso com’era in Castel Sant’Elmo: ormai non gli restava che sperare che il prossimo parto della Regina potesse procurargli una grazia.

Ma quando, agli inizi del 1742, cominciò la vendita all’asta dei suoi beni era ormai chiaro che non solo la sorte ma pure San Gennaro si era voltato dall’altra parte. Lo seguirono al fresco, prima che morisse a causa di una congestione celebrale, anche i suoi complici: i noti ingegneri regi Medrano, Poulet, Porpora e Papis. E com’è solito da millenni qui in città, in pochi giorni si fece tutto quanto non si era fatto in un anno intero.

Per le fonti, vedi:
−−−−P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, vol I, Bruxelles 1847;
H. Acton, I Borboni di Napoli (1734-1825), Firenze 1999;
I. Ascione (a cura di), Carlo di Borbone. Lettere ai sovrani di Spagna (1734-1744), vol. II,
Pubblicazione degli archivi di Stato. Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione
Generale per gli archivi, Roma 2001-02
G. C. Ascione, Vita di corte al tempo di Carlo di Borbone nel Palazzo Reale di Napoli,
Napoli 2008.

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La signora che parlava “italiano”

“Nicolò, corri vieni qua, Nicolò”. La sua frase più ricorrente, la frase che diceva tutto, l’unico vero amore della sua vita. Era successo tutto molto in fretta, una guerra, un periodo di crisi, il trasferimento a Napoli con la famiglia. Torino è lontana adesso, per le strade dell’assolata città tanta gente, qui c’è il profumo del mare, il profumo della vita. Poi la guerra.

Nessuno ricorda come si fossero conosciuti, o forse nessuno gliel’aveva mai chiesto ma Michele era un bell’uomo, un uomo d’affari d’altri tempi, con il suo lungo cappotto e il suo Borsalino. Arriva con la sua Balilla quando la maggior parte delle persone gira ancora con il carretto. E’ un uomo tutto d’un pezzo, ha combattuto per il Re nella Grande Guerra e con poche parole conquista la bellissima giovane venuta dal nord. Lei è molto più giovane di lui, quasi 20 anni, ma la cosa non spaventa nessuno, Michele è già stato sposato, sa cosa significa il matrimonio, ha già un figlio, ma questo non lo ferma. E’ amore, quello autentico. Michele è compagno amorevole, ma è anche un po’ genitore e forse Giuseppina lo ha sposato anche per questo. La giovane è felice, lascia tutto, la famiglia, la grande città, il benessere familiare e si trasferisce in un piccolo paesino, su una strada, vicino alla stazione dove una chiesa, una taverna e un distributore di carburante sono le cose più in vista.

“La signora parla strano”, “ma addò ne vene?” furono i commenti iniziali ma poi, la solarità, la bellezza, il sorriso ebbero il sopravvento e, ben presto quella “parlata strana” diventò familiare e il fatto che la “Signora” si permettesse di fumare in pubblico, vestisse sempre alla moda, non avesse mai un capello fuori posto, passò in secondo piano. Era diventata “l’amica di tutti”. Casa sua era un viavai di giovani che giocavano, dormivano, imparavano, mangiavano, e guardavano la TV, la prima di tutto il paesello.

Sembra una favola ma non è così perché Giuseppina non aveva fatto i conti con la cattiveria pura, quella che proviene dalla famiglia, quella che venne fuori quando disse a tutti che aspettava un bambino. Michele aveva già un figlio, della stessa età della giovane moglie, come si sarebbe divisa la proprietà, chi avrebbe gestito quella IMMENSA ricchezza?

Giuseppina non percepisce il pericolo, è amata da tutti, non si aspetta colpi bassi. Tuttavia le serpi stanno crescendo in casa sua, perché l’avarizia e la brama di ricchezza seppelliscono qualsiasi legame, anche quello di sangue. E allora, per i familiari di Michele, il bimbo che porta in grembo Giuseppina non deve assolutamente nascere, si spera in un aborto naturale, visto che la donna ha già 36 anni, ma nulla, il bimbo cresce forte e sano nella pancia della mamma. Allora va ordito un complotto, un modo per far morire quel bambino, un’imboscata. Una notte, un gruppo di serpenti, con lo stesso cognome di quel bambino che avrebbero dovuto accudire, proteggere e aiutare a crescere, l’aspetta al buio, in quel cortile che doveva essere un riparo, saltandole addosso alle spalle. Pugni schiaffi ma soprattutto tanti calci nella pancia, perché quel bambino che avrebbe diviso la ricchezza doveva morire là, quella sera stessa. Tanti calci, sangue e urla, che nessuno ascoltò, o che nessuno volle ascoltare. E così questo agguato vigliacco lasciava a terra una donna esanime, in una pozza di sangue e il bambino in grave pericolo. Per sicurezza, i coraggiosi aggressori delle tenebre la prendono e la gettano, senza pietà, nella stalla dei porci, affinché quel sangue facesse da richiamo per gli animali e, essendo tanto affamati, potessero finire, finalmente, quello che vigliaccamente avevano iniziato uomini piccoli come granelli di sabbia, incapaci persino di chiudere la partita iniziata poco prima.

Tuttavia avevano fatto male i conti col coraggio e la forza di Giuseppina, una donna che non aveva esitato, pochi anni prima, a gettarsi davanti ai fucili di soldati tedeschi intenti a fucilare dei ribelli, regalando poi loro un maiale per placarne l’ira e, soprattutto, la fame. I maiali, spesso ritornano in questa storia, ma c’è un’immensa differenza tra maiali e porci.

Torniamo a noi.

Giuseppina raccoglie le forze, mentre i maiali avanzano pericolosamente, si alza in piedi, col sangue che le esce dal naso e dalla bocca, con il resto che le scorre sulle gambe e si avvicina alla porta. Nulla, è sbarrata, ed è troppo debole per poterla forzare, e allora urla, urla con tutta la forza che ha in corpo “aiuto! aiuto, per l’amor di Dio aiutatemi!” per la prima volta una voce disperata, non quella serena e pacata della “signora venuta dal Nord, che parlava ‘italiano’ ” che aveva incantato per anni gli abitanti del piccolo borgo con lo Scalo ferroviario. I maiali, gli animali nella stalla, non i porci che l’avevano ridotta in fin di vita, si avvicinano minacciosamente attirati dall’odore del sangue e dalla paura.

Le gambe tremano, la sudorazione aumenta ma, in quel momento, quando tutto sembra perduto arriva un “click” che sa di miracoloso. La barra di legno che blocca la porta si alza, si apre. “Michele, sei tu? Grazie per essere venuto, grazie!”. “No signora Giuseppì, non sono on Michele, sono Maria, ascit a for, svelta, che qua puzza e questo posto nun fa pe vuie, non fa bene al bimbo”. Era Maria, la governante, giovane donna cresciuta in casa, quasi una figlia. E’ piccola, minuta, magra, mentre Giuseppina è una donna alta oltre un metro e settanta, nonostante tutto la fa appoggiare e la porta su: “andiamo a casa, svelta e speriamo che non ce ver nisciun”.

“Mi hanno rubato pure la borsa Maria! La borsa con tutte le cambiali, con tutti i soldi che mi devono!” “Nun fa niente, signò, mo’ iamm ncopp, che qua è pericoloso, se ci vedono c’abbusc pure io”.

E così tornano a casa, due rampe di scale grigie, il robusto portoncino di legno si apre. Giuseppina redarguisce Maria: “Michele non deve sapere niente di questa storia, sono suoi familiari, stiamo già vivendo un momento difficile con l’azienda, tanto torna tra 3 giorni dalla Puglia, i lividi scompariranno, promettimelo, adesso”.

E così quel triste episodio morì quella sera stessa, senza che nessuno lo ricordasse, tranne loro due.

Da quel giorno, in quel modo, una mamma votò la propria intera esistenza ad un figlio.

Il bimbo, Nicolò, si era salvato e oggi ha figli e nipoti e una mamma che ancora lo protegge, da lassù.

Giuseppina, l’amica di tutti, la signora venuta dal nord che parlava “italiano”.