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I vincitori degli Oscar 2016, in ordine

Così come sono stati annunciati: a partire da Miglior sceneggiatura originale fino a Miglior film, passando per Leonardo Di Caprio (finalmente)

Quella di quest’anno era l’ottantottesima edizione dei premi Oscar, nome “volgare” degli Academy Awards. La cerimonia di premiazione è avvenuta al Dolby Theatre di Los Angeles negli Stati Uniti, quando in Italia era la notte tra domenica 28 e lunedì 29 febbraio. Gli Oscar sono i riconoscimenti più famosi per chi lavora nel cinema. Quest’anno il premio principale – quello di Miglior film – è stato assegnato a Spotlight, che racconta l’inchiesta dei giornalisti del Boston Globe sui preti pedofili negli Stati Uniti. Il film che ha vinto più premi è stato Mad Max: Fury Road, quarto capitolo di una saga cinematografica iniziata nel 1979: ne ha vinti sei, ma tutti “tecnici”. I film The Martian Carol avevano ricevuto moltissime nomination, rispettivamente sette e sei, ma non hanno vinto nulla. Il premio Oscar per il Miglior attore protagonista è andato a Leonardo Di Caprio, per The Revenant: Di Caprio era già stato candidato altre tre volte per lo stesso premio, più un’altra come attore non protagonista e una come produttore, senza mai vincere. Quello per la Migliore attrice protagonista è stato assegnato a Brie Larson, per Room.  Il premio Oscar per la Miglior regia è andato per il secondo anno consecutivo a Alejandro Inarritu, il regista messicano che ha diretto The Revenant quest’anno e Birdaman quello scorso.

Alicia Vikander e Mark Rylance hanno vinto i premi per i migliori attori non protagonisti. Il grande compositore italiano Ennio Morricone ha vinto il premio Oscar per Ia miglior colonna sonora, grazie alle musiche che ha composto perThe Hateful Eight.  I premi per le sceneggiature sono andati a Spotlight e The Big Short; il premio per il miglior cortometraggio animato è stato vinto da Bear Story, che potete vedere qui.

La cerimonia degli Oscar

La cerimonia di premiazione è condotta dall’attore e comico Chris Rock, che aveva già condotto la 77esima, e ha avuto al centro la questione razziale nel cinema statunitense: questa edizione è stata infatti caratterizzata dalle polemiche per la mancata inclusione di attori afroamericani ai premi per la recitazione, nonostante sia Idris Elba in Beasts of No Nation che Michael B. Jordan in Creed fossero stati molto apprezzati. Molti degli attori e dei comici che sono intervenuti sul palco hanno affrontato la questione in modo più o meno scherzoso: Chris Rock se n’è occupato nel suo lungo e diretto monologo iniziale, mentre durante la cerimonia la presidente dell’Academy, che si chiama Cheryl Boone Isaacs ed è una donna nera, ha confermato che saranno presi provvedimenti per invertire questa tendenza.

Le cose che sono successe

Altre cose notevoli che sono successe stanotte: c’erano i veri giornalisti della storia di Spotlight, Leonardo DiCaprio e Kate Winslet si sono fatti vedere insieme davanti ai fotografi per la gioia di tutti i ragazzi degli anni Novanta,l’orso di The Revenant era seduto tutto contento tra il pubblico, i droidi diStar Wars si sono fatti un giro sul palco, il comico Louis C.K. ha fatto un monologo breve ma molto divertente, Lady Gaga – introdotta da Joe Biden – ha cantato una canzone per le persone vittime di abusi sessuali nei campus universitari.

Le votazioni per gli Oscar

L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che è stata fondata nel 1927 con lo scopo di sostenere e promuovere il cinema statunitense: la prima cerimonia degli Oscar si tenne nel 1929 e l’unico anno in cui non furono assegnati gli Oscar è stato il 1933. I vincitori degli Oscar sono decisi da circa 6.300 votanti che fanno parte dell’Academy. I votanti sono tutti professionisti del cinema: attori, registi, produttori, direttori della fotografia e così via (17 settori in tutto). Il blocco più rilevante è quello degli attori: circa un votante su cinque è un attore o un’attrice. La maggior parte dei votanti vota per la maggior parte delle categorie (ci sono alcune eccezioni per degli Oscar particolarmente tecnici, in cui vota solo “chi se ne intende davvero”). Una particolarità è quella che riguarda il modo in cui viene deciso il Miglior film. L’ha spiegata Kyle Stock suBloomberg:

Il compito più difficile è determinare il Miglior film, che non per forza è quello che ha raccolto il maggior numero di preferenze assolute: ai membri votanti è chiesto di classificare in ordine di preferenza i film candidati e non di sceglierne uno come in altre categorie. Le schede per il Miglior film sono impilate in base alle preferenze assolute. La pila più bassa viene poi ridistribuita a seconda del film in seconda posizione su ogni scheda, e il processo viene ripetuto finché un film ha più della metà delle schede. Un film con solo una minoranza di preferenze potrebbe potenzialmente vincere, nel caso in cui fosse stato indicato in seconda posizione in un numero sufficiente di schede.

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La premiazione di “Il Caso Spotlight”, Miglior film degli Oscar 2016 (MARK RALSTON/AFP/Getty Images)

#LochiamavanoJeegRobot , la colonna sonora su #Spotify

A dare l’annuncio sono prorpio Gabriele Mainetti e Michele Braga sulle rispettive pagine Facebook, la colonna sonora del film del momento è ascoltabile su Spotify al seguente link:


Da non Perdere.

La nostra recensione di Thomas: https://www.planetmagazine.it/lucca-comics-2015-claudio-santamaria-il-supereroe-che-non-ti-aspetti/

La recensione di Paola: https://www.planetmagazine.it/lo-chiamavano-jeeg-robot-storia-di-un-eroe-che-non-voleva-esserlo/

L’intervista a Nicola Guaglianone (sceneggiatore): https://www.planetmagazine.it/intervista-a-nicola-guaglianone-luomo-che-sta-dietro-a-lo-chiamavano-jeeg-robot/
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Verga e ‘La Roba’, tornare a raccontare ‘veramente’ la ‘realtà’ spaventa

Per comprenderlo in ogni sfumatura bisogna leggerlo. Giovanni Verga, insieme a Luigi Capuana è considerato il padre del “verismo”, corrente letteraria che nell’800 spinse la letteratura e gli intellettuali del tempo ad occuparsi (finalmente) della realtà, a descriverla non può attraverso canoni schematici e accademici ma attraverso uno stile “nuovo” che la faceva dunque “parlare”. Ispirata al positivismo e al naturalismo, la nuova corrente letteraria mira a fotografare oggettivamente la realtà sociale rappresentandone rigorosamente le classi, anche quelle più umili, in ogni aspetto anche quelli negativi e sgradevoli. Una “ricerca letteraria” che prenderà il via a Milano (vera Capitale della Cultura al tempo) e che si diffonderà subito nel resto del paese. Verga, Capuana, Grazia Deledda, Renato Fucini ecc., saranno dei grandi innovatori e porteranno alla ribalta “realtà” sino ad allora escluse dal dibattito intellettuale e anche politico. Tra gli autori che in quel tempo maggiormente hanno lasciato un segno indelebile nella cultura italiana spicca Verga. Giovanni_Verga_1L’autore de “I Malavoglia, “Storia di una capinera”, “Mastro Don Gesualdo”, “Novelle Rusticane”, ecc., nonché in vecchiaia Senatore del Regno d’Italia per volontà del Re Vittorio Emanuele III, sarà tra i maggiori autori di successo della corrente del “verismo”. L’utilizzo del “principio dell’impersonalità”, con una narrazione distaccata, rigorosamente in terza persona, e l’utilizzo di vocaboli tratti dai dialetti, in particolar modo quello siciliano, sono gli elementi salienti che caratterizzano la nuova corrente letteraria. Spicca poi l’interessa per le questioni socio-culturali. Nella produzione di Verga si torna a parlare della questione meridionale, dei costumi e delle usanze, del modo di vivere completamente diverso rispetto al Nord Italia, dunque delle differenze culturali e tutte le tematiche ad esse connesse. Verga2Tra i principali concetti sviluppati dall’autore vi è quello dell’impossibilità per un personaggio di umili origini di riuscire, per quanto esso valga, a riemergere da condizione in cui è nato. In poche parole per Verga non è possibile che un povero diventi ricco. Una visione che può sembrare pessimistica e fatalista della società ma che invece rispecchia perfettamente la società del suo tempo e che presenta innumerevoli spunti di riflessione anche per la nostra società contemporanea dove da tempo ormai, a seguito soprattutto della crisi economica, nei Tg, sui social network, nelle indagini statistiche, dagli organi d’informazione, si ascolta l’espressione “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. verga 3Ma la ricchezza è spesso ingannevole ed apparente, come ricorda lo stesso Verga nella novella “La Roba”. Il povero e umile Mazzarò ai arricchisce col suo duro lavoro, ma le sue ricchezze non lo emanciperanno. Proprio per approfondire questi temi e aspetti, riportiamo di seguito integralmente la novella “La Roba”, tratta da le “Novelle Rusticane”:

“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: – Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: – Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò. verga5Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. verga4Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: – Curviamoci, ragazzi! – Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. – Costui vuol essere rubato per forza! – diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: – Chi è minchione se ne stia a casa, – la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: – Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. – Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! – diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. – Lo vedete quel che mangio io? – rispondeva lui, – pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: – Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? – E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. verga6E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: – Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! – Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: – Roba mia, vientene con me! – ”

Intervista a Nicola Guaglianone, l’uomo che sta dietro a “lo chiamavano Jeeg Robot”

[show_avatar email=1 user_link=authorpage avatar_size=50]Nicola Guaglianone è uno scrittore creativo romano che a noi piace molto. Insieme a Gabriele Mainetti è l’uomo dietro il “robot” del film evento “lo chiamavano Jeeg Robot” che esordisce OGGI (25 febbraio) in tutte le sale italiane. Ci ha risposto con molta cordialità appena lo abbiamo contattato e tra me e lui (siamo coetanei) è iniziata subito l’empatia nerd anni 80, l’ho riassunta tutta qui, ma siamo andati anche in radio e, dopo aver letto TUTTA l’intervista (non fate i furbi) potrete anche ascoltare la sua voce, ci ha svelato tante interessanti novità.

Nicola Guaglianone, sceneggiatore di Lo Chiamavano Jeeg Robot
Nicola Guaglianone, sceneggiatore de Lo Chiamavano Jeeg Robot
T.: Caro Nicola, tu come me fai parte di quella generazione cresciuta nel mito dei cartoni animati giapponesi (anime) che hanno invaso il nostro paese tra la fine degli anni 70 e la metà degli anni 80. Come è nata l’idea di questo progetto? Come l’avete “assemblato” tu e Gabriele (Mainetti) ?

N.G.: Come hai detto tu, siamo quella generazione cresciuta a “pane e Bim Bum Bam”, siamo quella generazione che veniva lasciata ore e ore davanti alla TV, che ci faceva un po’ da balia. Quando io e Gabriele abbiamo iniziato a pensare a LCJR abbiamo fatto riferimento a quello che era il nostro immaginario, il nostro rapporto col MITO.

Il MITO è quello che porta un po’ del nostro peso sulle sue spalle, quel mito che è stato il nostro compagno di giochi da bambini e che abbiamo cercato di riadattare ad una realtà prettamente italiana.

La sfida è stata proprio quella di unire dei generi che, per definizione, non si appartengono. Da un lato il mito degli eroi (giapponesi o USA) e dall’altro il cinema che abbiamo sempre amato, penso a Sergio Leone, Pasolini, Calligari, che, quest’ultimo, con Amore Tossico ci ha influenzato non poco.

Abbiamo cercato di prendere due immaginari ed unirli insieme, cercando un’armonia.

Foto di Emanuela Scarpa
Foto di Emanuela Scarpa
T.: Perché la scelta della periferia romana per il film?

N.G.: Anche per Basette e Tiger Boy noi abbiamo attinto al mito (Lupin e l’Uomo Tigre) ma lo abbiamo adattato ad un ambiente tutto italiano, utilizzandolo per raccontare la realtà di una periferia spesso dimenticata. Abbiamo usato il MITO per raccontare le storie degli ultimi, degli emarginati, di coloro che spesso sono dimenticati. E in lo chiamavano Jeeg Robot questo tema ritorna più forte che mai.

La mia esperienza di lavoro in un centro di integrazione sociale a Tor Bella Monaca mi ha dato la spinta e la voglia di parlare di questa parte della capitale che in pochi raccontano.

Raccontare quel tipo di umanità mi ha sempre stimolato.

L’emarginazione è a 2 ore dal centro…

T.: Jeeg Robot c’entra poco con il film, giusto?

N.G.: Io non direi, Jeeg c’entra poco come c’entrava poco Lupin con Basette o Tiger Man con Tiger Boy, abbiamo utilizzato il mito, come ti ho detto prima, per raccontare storie umane. In realtà è proprio grazie al mito si può raccontare questa storia.

Nello specifico Alessia usa Jeeg Robot per sfuggire ad una realtà difficile per lei, per il suo trascorso e per quello che ha subito fin dalla tenera età.

D’altro canto nello stesso tempo la fragilità di Alessia è il mezzo attraverso il quale un uomo supera la sua chiusura verso il mondo.

Lo chiamavano Jeeg Robot è la storia della rieducazione sentimentale di un misantropo che pensa solo a se stesso ma che grazie all’amore di una donna arriverà a quel principio morale che ispira molti supereroi e cioè che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”.

T.: I tre personaggi principali della storia, a loro modo dei giganti. Enzo, Alessia e lo Zingaro ma come mai questo riferimento alle icone pop italiane anni 80?

N.G.: Volevamo creare un cattivo che non fosse un villain e basta, ci piaceva dotarlo di fragilità, la fragilità di un uomo che si sente sempre insoddisfatto, che non si sente mai abbastanza, sempre alla ricerca di una “grande occasione” che gli è sfuggita dalle mani una volta. Un uomo legato al passato, legato ad un appuntamento mancato.

Se da un lato la “svolta” di Enzo è una svolta principalmente sentimentale per lo Zingaro, invece, svoltare significa guadagnarsi il rispetto degli altri, e questo gli farebbe compiere qualsiasi atto.

T.: Avete sdoganato il supereroe italiano, andando anche al di là del Ragazzo Invisibile di Salvatores, come prevedi che risponderà il pubblico?

N.G.: Mi auguro che ci sia una risposta forte del pubblico, calorosa e numerosa. Nelle proiezioni a cui ho assistito ho visto tantissimo entusiasmo, mi è sembrato davvero di vedere quei film di Bud Spencer e Terence Hill, dove il pubblico partecipava con grande trasporto.

Questo film è intrattenimento puro ma è anche un film duro, dove si intrecciano generi e sottogeneri, c’è una storia d’amore legata ai 2/3 del racconto. Molto della trama gira su questo perno.

T.: Lo chiamavano Jeeg Robot avrà un seguito?

N.G.: L’idea c’è, abbiamo tracciato un percorso, ora la sfida è trovare un altro tema forte, fare un racconto che sia prettamente italiano, perché LCJR è un film assolutamente italiano, un film dove ci si relaziona al potere nella maniera assolutamente e totalmente italiana.

Accompagneremo le persone in un viaggio, “cosa succederebbe ad un ladruncolo di periferia italiano se all’improvviso si ritrovasse, per caso, un superpotere?”.

Dobbiamo dare la connotazione di unicità alla prossima storia, deve essere un film che potrebbe essere girato solo in Italia.

Ho già scritto la bozza di un soggetto che potrebbe essere il nostro prossimo lavoro, ma, in ogni caso, ci confrontiamo e cerchiamo sempre di tirare fuori, come per i cortometraggi, qualcosa di unico.

Se riusciremo (io e Gabriele) a conservare il “pischelletto”, il fanciullino, che è in noi, allora continueremo il progetto, altrimenti lo accantoneremo.

T.: Quanto ha bisogno in questo momento l’Italia di un supereroe?

N.G.: C’è sempre bisogno di miti per crescere, poi è importante, dopo andare avanti con le proprie gambe.

Se devo dire la mia, credo che in questo momento in Italia manchi la MERITOCRAZIA, parlando del mio lavoro, mi piacerebbe che un giovane che scrive in questo momento possa emergere. Per un giovane, in questo momento, fare lo scrittore in Italia è difficilissimo. Per fortuna oggi, con internet, con costi limitati, o quasi pari a zero, riesci farti conoscere, e alla fine, se sei bravo, perché non credo nei geni incompresi, vieni fuori.

T.: Cosa vogliamo dire ai nostri lettori per concludere questo nostro incontro?

N.G.: Andate a vedere il film, “correte ragazzi laggiù”, al cinema.

Siamo d’accordo, CORRETE AL CINEMA STASERA,  non ve ne pentirete.

lcjr

L’intervista su Radio OIM:

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Berlinale 2016: Jude Law è il celebre scrittore Thomas Wolfe in Genius

L’attore Michael Grandage debutta alla regia con Genius, il biopic con Colin Firth, Jude Law, Guy Pearce e Nicole Kidman, che racconta il rapporto professionale e l’amicizia tra Max Perkins e il celebre scrittore Thomas Wolfe.  “Tom ambiva a trovare dentro di sé una voce originale e profetica rispetto alle mode letterarie vigenti, aveva immense capacità di scrittura. La sfida più ardua per me e penso per Colin è stata quella di aderire alla loro velocità di pensiero. Questi due grandi talenti avevano un’abilità intellettuale pazzesca, difficile da riprodurre. Abbiamo dovuto provare molto” ha spiegato Jude Law durante la conferenza stampa del film, presentato in anteprima alla Berlinale 2016, e atteso nelle sale italiane nel prossimo autunno 2016 distribuito da Eagle Pictures.

urlIspirato alla biografia scritta da A.Scott Berg, Genius racconta l’inizio della carriera dello scrittore americano contemporaneo Wolfe, dal momento in cui il curatore editoriale Max Perkins esclamò: “Voglio pubblicare il tuo libro!” Si trattava di O, Lost noto al pubblico con il titolo di Angelo, guarda il passato.  Responsabile del successo di alcuni dei talenti letterari più imponenti del ‘900, come F. Scott Fitzerald ed Ernest Hemingway, con il suo cappello sempre in testa e una grande passione per il suo lavoro, Perkins, interpretato magistralmente da Colin Firth, era un uomo fedele alla famiglia, che dedicava gran parte delle sue giornate ai libri e alla ricerca di artisti in grado di raccontare storie. Thomas Wolfe, una personalità eccentrica ed estrosa, che Jude Law riesce ad incarnare in modo equilibrato e verosimile, regalando al pubblico un personaggio interessante da scoprire nel corso del film, lo colpisce ed instaura con lui un legame viscerale, guidato da una passione e un intento comune: far conoscere al mondo le centinaia di pagine inedite tenute insieme con un vecchio spago. Grandage non realizza un biopic nel senso più classico, ma piuttosto gestisce bene un cast di alto livello per un film biografico tra ironia e dramma, che permette di conoscere meglio una figura che ha ispirato la Beat Generation ed influenzato autori come Jack Kerouac. Una buona alchimia si avverte nella coppia Law e Firth sulla scena, anche se la sceneggiatura è poco incisiva e poteva esigere qualcosa di più in relazione alla storia narrata. Esilarante e degna di attenzione la partecipazione di Nicole Kidman nei panni della compagna di Thomas Wolfe, fortemente dipendente da lui e vittima dell’incapacità del genio di prendersi cura di qualcun altro e allergico alle relazioni. Genius è un film consigliato a metà, che tuttavia convince nel complesso, presentando una debole struttura narrativa e una regia ordinaria.

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“Hai visto Lucio? Ce l’abbiamo fatta !”. Gli Stadio vincono Sanremo nel segno di Dalla

Un sodalizio che ha certamente raggiunto il suo apice sabato scorso ma che rappresenta molto più di una vittoria: gli Stadio vincono il Festival di Sanremo nel segno di Lucio Dalla. Una storia appassionante, un mix di emozioni reciproche artista/artisti-pubblico che resta nei cuori degli ascoltatori. Gli Stadio, composti nella formazione originale, da Gaetano Curreri (voce e tastiera), Giovanni Pezzoli (batteria), Roberto Drovandi (basso elettrico), Andrea Fornili (chitarra) hanno vinto la prestigiosa e più importante manifestazione musicale nazionale con il brano “Un giorno mi dirai”. stadioLi immaginiamo tempo fa in compagnia di Lucio in qualche bar bolognese: “Vedrai, vedrai… un giorno ci dirai”, a scommettere sul loro destino inevitabilmente legato a quello del grande cantautore.dalla4 Fu proprio Dalla a dare loro il nome “Stadio”. Era la fine degli anni ’70 e gli Stadio erano il gruppo spalla di Lucio Dalla. Il tour ‘Banana Republic’, che vede Dalla al fianco di Francesco De Gregori, è il trampolino di lancio della band che da lì in poi inizierà a mietere grandi successi. La prima esperienza degli Stadio con Lucio risale però all’album Anidride solforosa del 1975 seguita poi dall’incisione di “Com’è profondo il mare”. Nel 1981 nascono ufficialmente gli Stadio che accompagneranno ancora una volta Dalla nella sua tourné estiva proponendo anche le loro prime due canzoni:dalla3 ‘Grande figlio di puttana’ e ‘Chi te l’ha detto’. Le due canzoni furono inserite anche nella colonna sonora del film ‘Borotalco’ di Carlo Verdone. Nel 1983 esce il 45 giri che segnerà la loro carriera: Acqua e sapone, per l’omonimo film sempre di Carlo Verdone. Ormai gli Stadio sono una band importante del panorama musicale italiano e l’anno seguente, nel 1984, si esibiscono per la prima volta all’Ariston. Purtroppo arriveranno ultimi con il brano “Allo stadio”. Dall’esperienza sanremese verrà fuori l’Album “La faccia delle donne”. Ma il riscatto arriva pochi mesi dopo. Alla fine dello stesso anno esce infatti “Chiedi chi erano i Beatles”, vera e propria pietra miliare del repertorio della band. Un successo clamoroso. Un brano immancabile nei loro tour e concerti. Nel febbraio 1986 gli Stadio tornano nuovamente a Sanremo con il brano Canzoni alla radio, con la quale per la seconda volta consecutiva si classificano ultimi. Nell’album omonimo che segue sono incluse Lunedì Cinema, già da alcuni anni sigla di apertura di Lunedifilm, rubrica del lunedì sera dedicata da Rai Uno alla trasmissione di grandi film, Incubo assoluto (scritta per loro da Roberto “Freak” Antoni) e Giacche senza vento. stadio4dalla 1Nello stesso anno gli Stadio accompagnano nuovamente Lucio Dalla nel grande e epico tour negli USA “DallAmeriCaruso”. Ennesimo trionfo del cantautore bolognese accompagnato dai fedelissimi Stadio. Nel 1987 esce la raccolta “Canzoni alla Stadio”. Gli anni ’90 sono anni di intense collaborazione (da Bergonzoni, che tura i titoli, a Luca Carboni, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Edoardo Bennato, Vasco Rossi e Saverio Grandi, quest’ultimo ancora oggi loro autore principale). Nel 1991 gli Stadio vincono il loro primo “disco d’oro” con il singolo Generazione di fenomeni sigla del telefilm di Rai 2 I Ragazzi del muretto che anticipa album Siamo tutti elefanti inventati (ritenuto dai critici il più riuscito insieme a La faccia delle donne). stadio3dalla5Nel 1999 avviene la loro terza partecipazione al Festival di Sanremo con il brano Lo zaino scritto per loro da Vasco Rossi: stavolta arriveranno quinti. Ad inizio anni 2000, esattamente nel 2002 arriva uno dei loro ultimi grandi successi: “Sorprendimi”, subito in vetta alle classifiche. Il brano è presente nell’album“Occhi negli occhi” e ancora oggi è considerata una delle più belle canzoni del gruppo. Nel 2007 ancora una partecipazione a Sanremo con la canzone “Guardami”. Nel 2012 il gruppo festeggia i 30 anni di carriera. Intanto album, concerti, tour. E infine la vittoria, la più dolce , la più gradita. Non è stato certo un caso se nella serata sanremese dedicata ai duetti gli Stadio si sono presentati con una bellissima cover de “La sera dei miracoli”.dalla2 stadio5

Lucio torna sempre. Una sua foto (con la quale gli Stadio dialogano) alle loro spalle accompagna l’esibizione. Per l’occasione, il gruppo si è riunito nella sua formazione originale, da Ricky Portera col cappello da Generale Custer a Marco Nanni, seduto in platea. Un successo che premia un sodalizio quarantennale che ha donato tanto alla musica italiana. stadio2Sul viso degli Stadio nel corso della premiazione sembrava stampa la frase: “Hai visto Lucio? Ce l’abbiamo fatta!”. Si, alla fine gli Stadio (e Lucio) hanno vinto.

Berlinale 2016: Alexander Skarsgard e Michael Pena poliziotti corrotti

La sezione Panorama della Berlinale 2016 ha presentato in anteprima il film War on Everyone di John Michael McDonagh, che dopo Un Poliziotto da happy hour del 2011, torna al genere del buddy cop movie per raccontare la storia di due poliziotti che non seguono propriamente le regole. Alexander Skarsgard, l’ex vampiro della serie tv True Blood e Michael Pena interpretano infatti due agenti corrotti della polizia del New Mexico, che decidono di ricattare ed incastrare qualsiasi criminale incroci il loro cammino. Ma le cose prendono una brutta piega quando cercano di intimidire un criminale più pericoloso di loro, con il volto di Theo James. Lo schema narrativo è quello della più classica commedia poliziesca americana, resa però secondo uno stile registico più europeo per molti tratti. I personaggi vengono plasmati da un costante umorismo che si scontra però più volte con momenti più drammatici. Il problema è che manca l’azione che ci si aspetta da un prodotto del genere e la sceneggiatura si confonde rendendo la storia scontata e poco coinvolgente sotto diversi punti di vista. McDonagh, tuttavia, ha avuto la buona idea di creare la coppia Pena-Skarsgard che funziona sullo schermo. Nel video servizio che vi proponiamo di seguito potete ascoltare alcune dichiarazioni dei protagonisti presenti a Berlino per presentare il film, che ancora non ha una distribuzione italiana.

Lo chiamavano Jeeg robot, storia di un eroe che non voleva esserlo

[show_avatar email=76 align=left user_link=authorpage show_name=true avatar_size=50]Quando guardo un film su Roma mi fa sempre un certo effetto, luoghi che riconosci quell’atmosfera magica che rivivi e che solo Roma ti può dare. Il film che non parla di quella grande bellezza alla Sorrentino, mostrata nelle vie del centro ma della periferia oscura e fatiscente di Tor Bella Monaca. Non in centro dove c’è ancora giustizia, ma nei luoghi non luoghi dove la giustizia si crea da sé.

Il regista Gabriele Mainetti
Il regista Gabriele Mainetti

Lo chiamavano Jeeg Robot è il primo lungometraggio diretto da Gabriele Mainetti, coraggioso per molti motivi, uno di questi di aver prodotto un film del genere in Italia, terra di cinepanettoni. Si, il coraggio o come dice lo stesso regista la curiosità di proporre qualcosa di diverso; perché non è vero che il pubblico italiano ama vedere solo commedie sentimentali, ma la dura verità è che ultimamente si producono solo film di quel tipo. Dopo l’operazione di innesti compiuta per esempio da Gabriele Salvatores con Il Ragazzo Invisibile, lo chiamavano Jeeg Robot potrebbe essere un altro tentativo del cinema italiano recente di avvicinarsi a quel territorio condiviso tra fumetto e cultura pulp. Un ragazzo come tanti, Enzo (Claudio Santamaria), scoprirà di possedere una forza straordinaria in seguito alla caduta in mezzo a del materiale radioattivo nel fiume Tevere.

Da quel momento la vita di Jeeg Robot non sarà più la stessa. Protagonista un eccellente Claudio Santamaria, nei panni dell’antieroe per antonomasia, che al contrario di personaggi come Clark Kent (Mitico Superman) o Bruce Wayne (Batman), il nostro Enzo non possiede nulla a parte la sua determinazione.

Il protagonista Claudio Santamaria

Ci fa riflettere su quali siano davvero i valori che ci rendono degli eroi, che non sono i super poteri ma le ragioni che ci muovono. Sempre burbero, il protagonista si ritroverà a trasformarsi da ladro a difensore del bene anche grazie alla sua compagna Alessia (Ilenia Pastorelli) che gli ricorda che “C’è un sacco di gente da salvare” e cerca di far uscire il suo se stesso migliore.

L’attrice Ilenia Pastorelli, una grandissima interpretazione
Marinelli e il cast del film con il regista Mainetti

Il Terzo attore protagonista di questo film è Luca Marinelli, già conosciuto dai più in “Non essere cattivo” nella parte del pazzo Cesare. Anche qui il nostro Luca farà il cattivo, colui cioè che frequenta le peggiori compagnie della capitale e che insieme al Genny Savastano di Gomorra, ce la metterà tutta per togliere di mezzo il nuovo difensore della città, Jeeg Robot, che non gli permette di fare i suoi interessi nella Capitale.

Ben girato, ben scritto e ben interpretato, nonostante new entry nel mondo del cinema come Ilenia Pastorelli, che ci regala una performance davvero reale esplosiva, dolorosissima, quasi agonizzante nella propria apparente mancanza di lucidità. Il film sarà distribuito nelle sale da Lucky Red dal 25 febbraio 2016. Io vi consiglio di andarlo a vedere, perché nonostante non ami tanto queste saghe di super eroi, mi ha piacevolmente sorpreso e emozionato, tutti in fondo abbiamo ancora bisogno di credere negli eroi: per poter migliorare noi stessi e avere ancora fiducia nelle bontà delle persone, proprio come il nostro Jeeg Enzo.

Berlinale 2016: Ave, Cesare! apre con l’ omaggio al passato dei fratelli Coen

La 66° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino si è aperta con una signora del grande schermo che non ha bisogno di presentazioni, Meryl Streep. L’attrice è stata scelta quest’anno come Presidentessa della Giuria Internazionale con l’onere e l’onore di assegnare l’Orso d’Oro al miglior film della competizione. Alla cerimonia di apertura all’interno del Berlinale Palast è seguita la premiere di Ave, Cesare!, il nuovo film di Ethan e Joel Coen che ha ufficialmente dato il via alla kermesse. Nelle sale italiane lo vedremo a partire dal 10 Marzo, ma i fratelli del Minnesota hanno presentato al festival tedesco questa nuova storia corale con un cast notevole, che comprende George Clooney, Channing Tatum, Scarlett Johansson, Josh Brolin, Ralph Fiennes e tanti altri.

Eddie Mannix è un fixer degli studios e deve tenere lontani dagli scandali le star che lavorano nella Hollywood degli anni ’50. Deve far sparire foto piccanti, cercare di camuffare gravidanze fuori dal matrimonio e altri imprevisti di questo genere, ma quando scompare il protagonista di un film su Gesù che interpreta un centurione romano, il suo lavoro si complica. Anche perché l’attore è stato rapito da un gruppo di ferventi comunisti che chiedono un riscatto mentre trattengono il “prigioniero” secondo modalità alquanto insolite. Dopo l’ultimo A Proposito di Davis i fratelli Coen si divertono a confezionare un omaggio al cinema del passato, evitando accuratamente l’effetto nostalgia. Scenografie sfarzose richiamano i colori e lo stile dell’epoca d’oro di Hollywood, in cui si muovono una serie di personaggi in parte inventati e in parte ispirati al reale star system di quegli anni. Josh Brolin nei panni di Mannix è il motore del film e regge le redini di una sceneggiatura ricca e a tratti surreale. Come molti loro precedenti lavori, i Coen non permettono una facile codificazione dei generi, realizzando una commedia un po’ sopra le righe, che diverte ma non conferma la genialità a cui i registi ci hanno abituato fino ad oggi. 

Il film procede come una composizione di una serie di sketch in cui l’ironia la fa da padrona, seguendo il giovane attore western acrobatico e superficiale, un Channing Tatum vestito da marinaio che improvvisa un balletto di tip tap stile Gene Kelly, Scarlett Johansson che emerge dalle acque come una sirena, e altre idee per una sintesi della Hollywood degli anni ’50 con una forte componente comica e leggera. Ave, Cesare! sembra voler ripercorrere le storie e i personaggi amati dal pubblico di quel periodo storico-artistico, interessato a quello che accadeva dentro e fuori lo schermo purchè fosse spettacolo. I fratelli Coen adottano un’anarchia creativa per portare sullo schermo un film divertente e sarcastico avvolto in un’atmosfera ludica ed ironica, ma Ave, Cesare! non convince del tutto per la futilità dell’intento finale e la saltuaria confusione che attraversa più volte la narrazione.

The hateful eight – un film poco Buono, piuttosto Brutto e molto Cattivo

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Secondo western e ottavo film per Quentin Tarantino, The Hateful Eight, nonostante le scene cariche di violenza e sangue, vede gli spettatori nelle sale cinematografiche addormentarsi per tre quarti della durata.

Nel cast del film Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demian Bichir, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, Channing Tatum.

Un successo ai Golden Globes 2016 per la miglior colonna sonora, quello di Ennio Morricone. Il Maestro che quaranta anni prima, compone la colonna sonora per Il buono, il brutto e il cattivo, diventata simbolo delle grandi cavalcate nell’Ovest.

Il regista sceglie di dividere il film in due scenari, rispettivamente nel primo e secondo tempo.

Nel primo tempo del film una diligenza corre spedita verso Red Rock, trasportando di Daisy Domergue, canaglia in gonnella condotta alla forca dal cacciatore di teglie, noto come “il Boia”. La diligenza si arresta davanti al Maggiore Marquis Warren, diligence stopper e cacciatore di taglie nero che ha servito la causa dell’Unione. Ospitato con riserva da John Ruth, bounty hunter che crede nella giustizia, meno negli uomini, Warren lo rassicura sulle sue buone intenzioni.

Una seconda sosta della diligenza per il nuovo sceriffo di Red Rock, il sudista rinnegato, Chris Mannix.

Nel secondo tempo i personaggi trovano rifugio nell’emporio di Minnie dove li attendono un caffè caldo e quattro sconosciuti. Interrogati a turno dal diffidente John Ruth probabilmente nessuno è chi dice di essere. Riparati in un rifugio e disposti come pedine su una scacchiera, gli otto hateful di Tarantino agiscono in primo piano e sullo sfondo.

Sceriffi designati, cacciatori di taglie, cowboy nostalgici, generali in pensione, gangster nomadi, burocrati forbiti, ex soldati incazzati, bianchi, neri, messicani, confederati e unionisti, non manca davvero nessuno nella pièce western di Tarantino, magma incandescente degli Stati Uniti nascenti che scalda i rancori e cova una diffidenza post guerra civile.

Ed è in questo momento che la sala si risveglia, seppur con ancora qualche sbadiglio qua e là. Lentamente sale la tensione; tra pallottole, avvelenamenti, vecchi rancori la vera identità dei personaggi viene progressivamente a galla sciogliendo il bandolo della matassa. Con un vero e proprio bagno di sangue sullo schermo, Tarantino gode nel mettere in scena e discutere tematiche razziali di questo Paese, ma The Hateful Eight è meno un film alla Sergio Leone e più uno alla Agatha Christie, ricordando la sequenza di “Dieci piccoli indiani”.

Tutto si riduce al whodunit hitchcockiano: chi è l’assassino tra gli abominevoli protagonisti maschili, fatti fuori uno via l’altro?

tarantino